Estratti da un bombardamento. 13-15 febbraio 1945 (1)

“Qualcuno” ci ha insegnato che per ricordare non è sufficiente soffermarsi sulla data esatta della ricorrenza. Noi – più modigerati – anticipiamo solo di qualche giorno un appuntamento di storia scomoda. Lo facciamo con il primo estratto dal libro di Max Hastings – Apocalisse tedesca. La battaglia finale 1944-1945, edito da Mondadori (che potete richiedere a Thule Distribuzioni).


Pag. 445 – 451

A volte,  Stemann prendeva la macchina e percorreva i 200 chilo­metri che separavano Berlino da Dresda, per assaporarne la delizio­sa tranquillità dopo gli attacchi aerei che martoriavano incessante­mente la capitale. Andava ad alloggiare all’Hotel Bellevue. «Tutto, all’intorno, era bellezza» scriveva «quella bellezza creata dalla mano dell’uomo di cui eravamo tanto assetati: il castello di Augusto il For­te, lo Zwinger, la barocca Hofkirche, i musei con le loro vaste colle­zioni di porcellane, avori, sculture e dipinti, e più oltre l’Altstadt, con le sue sinuose stradine e i numerosi antiquari, ben forniti e an­siosi di vendere.»

Gòtz Bergander era un ragazzo di Dresda. Aveva 12 anni quando scoppiò la guerra. Suo padre, assegnato a un’unità di artiglieria an­tiaerea della Luftwaffe in Francia, nei primi tempi tornava regolar­mente carico di oggetti lussuosi. Pieno di entusiasmo, il ragazzo gli chiedeva sempre quanti aerei britannici aveva abbattuto. Nel 1941 ri­mase sorpreso nel vedere la madre scoppiare in lacrime quando la ra­dio annunciò l’invasione della Russia, ma il suo passatempo preferito restava quello di raffigurare fosche scene di battaglia sul suo album da disegno. A scuola, lui e i suoi compagni consideravano le esercitazioni antiaeree un gioco. Appallottolavano dei fogli e poi gli davano fuoco per simulare le bombe incendiarie ed esercitarsi a spegnerle, osservavano le foto delle città bombardate. Fino al 1945, tuttavia, Dresda rimase un bersaglio remoto e di bassa priorità per gli aerei alleati. «Avevo molta immaginazione, ma non abbastanza da concepire cosa potesse significare per noi un attacco aereo.» Quando lo stesso Bergander venne richiamato per far parte di una locale batteria an­tiaerea, le sue romantiche idee sulla guerra andarono rapidamente in frantumi. Il lavoro era duro, il trantran quotidiano immancabilmente tedioso. Ogni tanto, qualche bomba vagante andava a finire per sba­glio su Dresda, ma i cannoni spararono di rado. In una notte fredda e limpida, videro il lontano chiarore delle fiamme che avvolgevano Lipsia. Ma a Dresda si continuava a credere che il grande patrimonio culturale della città la rendesse immune dalle devastazioni alleate Con l’avvicinarsi della linea del fronte e l’incombere della disfatta, al­tre voci sostenevano che Dresda sarebbe stata risparmiata per funge­re da capitale d’occupazione degli Alleati.

Il padre di Gòtz, Emil Bergander, era stato congedato dalla sua unità di contraerea per dirigere la Bramsch, rinomata ditta di supe­ralcolici che aveva una distilleria accanto alla loro casa. Quando l’adolescente se ne stava a disegnare in camera sua e udiva alla radio l’avviso di un imminente attacco aereo, appendeva un asciugamani fuori dalla finestra per segnalare al padre di fermare la produzione negli stabilimenti. Cercavano di farlo proprio all’ultimo istante, per­ché il lievito andava a male se si arrestavano i macchinari. Nel tardo pomeriggio del 13 febbraio 1945, il ragazzo si trovava con la madre alla stazione di Dresda a guardare l’enorme moltitudine di soldati, viaggiatori e profughi. Alle nove di sera presero il tram per tornare a casa. Abitavano in una zona semiperiferica. Erano rientrati da poco, quando suonò l’allarme. L’edificio era di proprietà della ditta del pa­dre, che aveva gli uffici a pianterreno. L’amministratore delegato aveva ordinato di rinforzare le cantine con serrande d’acciaio e guar­nizioni di gomma per farle servire da rifugio: c’era anche una linea telefonica. La famiglia andò a cercarvi riparo, e ci rimase per l’intera fragorosa tempesta che seguì. Erano passati appena venticinque mi­nuti dall’inizio dell’incursione, quando gli aerei se ne andarono. I Bergander uscirono fuori nell’oscurità e videro che la loro zona non era stata bombardata, ma un grande bagliore roseo colorava il cielo sopra la città. Gòtz salì sul tetto della fabbrica e spense con la sabbia qualche bomba incendiaria che ci era caduta sopra. Da lì, il punto di riferimento principale era un grosso tabacchificio, sormontato da mi­nareti e da una cupola che lo facevano assomigliare a una moschea. Da un capo all’altro dell’orizzonte, ogni cosa stava bruciando. Gòtz rimase a guardare affascinato la bellezza delle fiamme, riflesse nel vetro giallo della cupola. Era impressionato, e impaurito. Questo pri­mo attacco era stato condotto da 244 Lancaster del 5° Stormo della RAF, che avevano scaricato oltre 800 tonnellate di bombe.

Anche a distanza di sicurezza dall’immensa conflagrazione che stava divorando la città, l’adolescente poteva sentire il suo calore. Scese nuovamente in strada, e vide avvicinarsi il primo gruppetto di fuggitivi terrorizzati. «Va tutto a fuoco!» urlavano. Avevano i cap­potti coperti di cenere, e molti erano scossi da violenti colpi di tosse a causa del fumo inalato. Alcuni portavano delle valigie cariche di effetti personali. Una piccola folla allibita si riunì davanti alla casa dei Bergander a commentare l’incubo. Di colpo qualcuno urlò: «An­cora l’allarme!». Si guardarono l’un l’altro, increduli. «Impossibile!» disse un uomo. «Criminali!» urlò Gòtz, furioso, rivolto al cielo. Sem­brava tutto così totalmente ingiusto. Ridiscesero nuovamente in cantina, ascoltando inorriditi le esplosioni, che sembravano ora mol­to più vicine e violente rispetto alla prima ondata di bombardamen­ti. Ed era proprio così. Cinquecentoventinove Lancaster della RAF sganciarono con straordinaria precisione oltre 1800 tonnellate di bombe. Ne furono abbattuti solo sei. L’impatto su Dresda fu cata­strofico.

Dopo quaranta minuti, l’attacco cessò. Usciti dal rifugio, i Bergan­der videro che la loro casa e la fabbrica erano praticamente gli unici edifici del quartiere rimasti illesi. Il ragazzo tornò sul tetto, ma ridi­scese subito dicendo ai genitori che non si vedeva altro che una bianca muraglia di fiamme. Le bombe ad azione ritardata facevano udire ancora qualche sporadica esplosione. Il fondo della via stava bruciando. La folla di fuggitivi aumentava costantemente. Alla fine, sfinito da quell’orribile spettacolo, Gòtz Bergander si addormentò, esausto.

La mattina dopo, gli abitanti di Dresda uscirono timidamente nel­le strade a guardare lo sfacelo della propria città. Victor Klemperer, sessantatreenne professore ebreo, desiderava quanto ogni altro citta­dino d’Europa la disfatta dei nazisti, ma lo spettacolo che gli si parò davanti agli occhi lo lasciò inorridito:

camminammo lentamente perché io portavo … [due] borse e le membra mi dolevano. Una casa dopo l’altra erano tutte rovine in fiamme. Là sotto, al fiume, dove si muovevano o si erano accampate diverse persone, nel terre­no smosso erano incastrati gli involucri angolari delle bombe incendiarie. Da molte case, lungo la strada sopra di noi, continuavano a sprigionarsi le fiamme. A volte sul cammino giacevano, sparsi qua e là, dei cadaveri: picco­li fagotti, nient’altro che abiti ammassati. Uno aveva il cranio fracassato e la Parte superiore della testa era una scodella di un rosso cupo. C’era un brac­cio con una mano pallida, non brutta, come quegli arti modellati con la cera che si vedono nelle vetrine dei parrucchieri. Le persone … portavano con sé, caricata sui carri, biancheria da letto o altro, oppure se ne stavano sedute sopra le casse o le balle. Fra l’una e l’altra di queste isole, accanto ai cadaveri e ai rottami delle automobili, continuava a fluire, in su e in giù, il traffico lungo l’Elba, un corteo silenzioso e agitato.

In quel giorno terribile, un’altra famiglia ebrea di Dresda fece un pellegrinaggio particolare, per accertarsi che anche la sede della Gestapo fosse stata distrutta. «Era terribile… i corpi, la città in fiam­me. ..» ricordava Henni Brenner «ma da lontano vedemmo che [anche] quello stava bruciando. Be’, allora provammo una certa soddisfazio­ne.» Anche la casa di Klemperer fu distrutta. Lui e sua moglie si strapparono la stella gialla dagli abiti, perché sapevano che solo co­me ariani avrebbero avuto la possibilità di ottenere cibo, riparo e mi­sericordia. Quando udirono nuovamente il rombo lontano degli ae­rei, e si gettarono a terra tra le esplosioni e i nugoli di polvere che le macerie riversavano loro addosso, Klemperer pregò ardentemente: «Purché non debba anche crepare dopo tutto questo!».

Avventurandosi lungo la strada, Gòtz Bergander incontrò una moltitudine di persone in fuga dalla città che chiedeva disperata­mente acqua. Curiosamente, arrivò un operaio in bicicletta. «Che sei venuto a fare?» chiese il ragazzo. «Volevo vedere se questo posto era ancora in piedi» rispose l’uomo, uno dei loro impiegati più scrupo­losi, nel suo forte accento sassone. Avevano tutti i nervi a pezzi: «Non riuscivamo a renderci davvero conto di quanto ci era accadu­to. Non provavo odio per gli aviatori, solo un’enorme rabbia. Li con­sideravo dei vigliacchi. Perché non venivano ad affrontarci a viso aperto?».

Quando suonarono di nuovo le sirene, si guardarono l’un l’altro con aria assente. «Ma non è rimasto più nulla da bombardare…» os­servò qualcuno. Un centinaio di persone, in gran parte isteriche, si affollarono nel loro rifugio mentre, nello stesso momento, Victor Klemperer giaceva in strada aggrappato alla sua paura. Trecentoun­dici Fortress dell’USAAF erano venuti a portare a termine ciò che i Lancaster della RAF avevano cominciato: scaricarono su Dresda altre 771 tonnellate dì bombe. I Bergander udirono cadere i primi ordigni, vicinissimi. Era come trovarsi sotto un ponte ferroviario al passare del treno. La luce andò via. Quando accesero le torce, videro che una densa nube di polvere bianca aveva invaso la cantina. Per un attimo, un improvviso spostamento d’aria fece mancare il respiro a tutti. Erano troppo storditi perfino per urlare. La famiglia Bergander si gettò a terra. Quella cantina rinforzata fu la loro salvezza. Una serie di bombe da 500 libbre si era abbattuta a pochi metri dalla casa. In­credibilmente, sia il palazzo che la fabbrica adiacente restarono pressoché illesi, eccezion fatta per i vetri delle finestre e gran parte delle tegole del tetto.

Quando uscirono, un forte vento da ovest stava alimentando le fiamme in quasi tutti gli edifici circostanti. I Bergander corsero fra le case con delle coperte bagnate per spegnere i detriti ardenti che ave­vano vagato per aria prima di cadere al suolo. Ringraziarono la loro buona sorte per aver salvato non solo la pelle e la proprietà, ma an­che una provvista di patate che costituì il loro unico nutrimento nei giorni che seguirono. Cominciarono a trasportare acqua all’ospedale vicino, che ne era privo. Si misero al lavoro per ripristinare l’energia elettrica nella fabbrica, aiutando al contempo come potevano la ma­rea di profughi. Gòtz Bergander aveva una macchina fotografica, e immortalò ogni cosa gli capitasse sotto gli occhi, a futura memoria. Il padre era furibondo: «Perché butti via il tempo in questo modo? E poi è vietato!». Nelle settimane seguenti, ebbero poco tempo non so­lo per parlare ma anche per riflettere su quanto era accaduto. Erano troppo impegnati a sopravvivere. Alla madre venne anche un infar­to. Aveva appena 44 anni.

Nell’arco di sole ventiquattr’ore, Dresda aveva subito una deva­stazione più radicale di quella di ogni altra grande città tedesca, a parte Amburgo e Berlino. Vi perirono non meno di 35.000 abitanti. Per una tipica ironia, i collegamenti ferroviari della città, pretesto al bombardamento alleato, ne uscirono relativamente indenni. Nel gi­ro di qualche giorno, i treni attraversarono nuovamente la città. «Il bombardamento di Dresda fu un puro e semplice spreco» osservava Bergander quasi sessant’anni dopo, con un distacco da storico assai poco comune fra i tedeschi della sua generazione.

Anche in guerra, i fini devono essere equiparati ai mezzi impiegati. Ma in quel caso i mezzi sembravano completamente sproporzionati ai fini. Non voglio dire che Dresda non dovesse essere bombardata – era uno snodo fer­roviario, e in quanto tale obiettivo di primo piano – né che costituisse un ca­so eccezionale rispetto ad altre città tedesche. Ma non capisco perché farlo su così vasta scala. L’unica risposta, suppongo, è che la politica di bombar­damenti alleata avesse sviluppato una dinamica propria.

Dopo il 1945 gli storici si sono interrogati a lungo sulle ragioni che indussero gli Alleati a distruggere Dresda. Per molti studiosi, in par­ticolare quelli tedeschi, non è facile capirle, perché la città non aveva alcuna importanza particolare nella mente degli strateghi alleati: era solo una di quelle dieci (o poco più) aree urbane sulla lista dei bersa­gli di Sir Arthur Harris a High Wycombe rimaste ancora indenni: il suo famigerato elenco delle cose che ancora restavano da fare in Germania. Questa «spuntatura» era essenziale al completamento del trionfo dell’aeronautica quale egli lo concepiva. Alla vigilia della conferenza di Jalta, Harris fu esplicitamente incoraggiato da Church­ill a occuparsi di obiettivi situati in Germania orientale. Il primo mi­nistro era ansioso di dimostrare ai russi la potenza dell’aviazione alleata. A Dresda le anomale condizioni meteorologiche crearono un firestorm – una muraglia di fuoco alimentata dallo spostamento d’a­ria delle esplosioni – quale il Comando bombardieri avrebbe voluto provocare ogni notte della sua offensiva. Ma vi riuscì solo in tre oc­casioni: ad Amburgo nel 1943, a Darmstadt nel 1944 e a Dresda nel 1945.

Svolgendo un quarto di secolo fa alcune ricerche sull’offensiva dei bombardieri, l’autore si imbatté e portò alla luce per la prima volta le istruzioni che la RAF aveva fornito alle squadriglie che attac­carono Dresda. Vi si leggeva:

In pieno inverno, tra il massiccio flusso di profughi in fuga da est e i sol­dati da far riposare, i tetti sono un bene assai ricercato … Dresda è diventata un centro industriale di primo piano … La quantità di linee telefoniche e di impianti ferroviari è di enorme importanza per controllare la difesa di quel­la parte del fronte ora minacciato dall’offensiva del maresciallo Konev … Intento dell’attacco è colpire il nemico nel suo punto più sensibile, al di qua di una linea del fronte già in parte crollata … e, incidentalmente, mostrare ai russi, al loro arrivo, che cosa è in grado di fare il Comando bombardieri.

La banalità di questo documento dà la misura esatta dello spirito poco meno che casuale con cui fu sferrato l’attacco su Dresda. In guer­ra i grandi orrori non sono sempre, e neppure spesso, il prodotto di una commisurata riflessione di coloro che li scatenano. Lo stesso Churchill si rammaricò della distruzione di Dresda, una volta preso atto delle sue implicazioni culturali. Ma, nell’incalzare delle esigen­ze belliche, per il primo ministro come per Harris Dresda era solo un nome su una cartina fino al giorno dell’attacco. Dopo, naturalmente, non fu quasi neanche quello.

«Questo scempio deve finire» scriveva dolorosamente nel suo dia­rio il sottufficiale della Luftwaffe Erich Schudak, dopo un’incursione aerea, il 5 marzo. «Come è stata ridotta la nostra bella Germania?» Schudak, peraltro, non era ancora disposto ad ammettere che ci fosse solo un modo per arrestare lo «scempio». «Gran parte della mia squadriglia è convinta che la guerra sia ormai perduta» scriveva il 1° marzo. «A questo mi viene da rispondere una cosa sola: “Smidollati!”. Le cose non vanno bene e le speranze sono ridotte al lumicini me ne rendo conto, ma sono certo che possiamo ancora ribaltare la situazione.» Sir Arthur Harris avrebbe potuto dire che, fintanto che sussisteva un tale stato d’animo tra i difensori della Germania, il suo assalto contro la popolazione tedesca doveva continuare. E così fu.

Henry Kissinger, forse stranamente, considerate le origini ebrai­che e la successiva carriera politica del personaggio, è tra quanti ri­tengono che il bombardamento a tappeto della Germania fu una scelta sbagliata: «Pure, una nazione che aveva tollerato lo sterminio di tanta gente non poteva dirsi molto degna di compassione». Si può star certi che il tema sarà argomento di discussione per genera­zioni e generazioni di tedeschi.

Il bombardamento delle città e dei centri industriali del Reich continuò fino alla fine, distruggendo alcuni obiettivi utili allo sforzo bellico nazista, e altri che non lo erano. Lunedì 12 marzo 1945, una massiccia incursione dell’USAAF rase al suolo il glorioso teatro del­l’opera di Vienna. Nel rogo andarono distrutti 160.000 costumi, e scenari di 120 allestimenti. Duecentosettanta persone morirono solo nella cantina del Jockey Club, colpito in pieno dagli ordigni. I soc­corritori impiegarono due settimane ad aprirsi un varco tra le ma­cerie per recuperare i corpi. «L’odore è nauseante e ti si attacca alle narici per giorni e giorni» scriveva Missi Vasil’cikova, che aveva la­sciato Berlino per andare a lavorare in un ospedale viennese. L’ul­timo spettacolo andato in scena al teatro dell’opera era stato Il crepu­scolo degli dei di Wagner.

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