La polemica cristiana contro il paganesimo
Tratto dall’opera in più volumi di Karlheinz Deschner, Kriminalgeschichte des Christentums.
“Esultino i santi… La loro bocca glorifichi il Signore; con spade affilate
si vendichino dei gentili, puniscano i popoli, gettino i loro re in prigione
e mettano i loro capi in catene, per dare esecuzione alla sentenza…
Alleluia!” (Sai. 149,5 ss.)
“Al vincitore e a colui che farà la mia volontà fino in fondo, io darò autorità sui pagani; egli li governerà
con un bastone di ferro e li farà a pezzi come stoviglie di terracotta”. (Ap. 2,26 s.)
‘Anche voi, santissimo imperatore, siete chiamato a condannare e a punire.
La legge dell’Altissimo v’impone di perseguitare in ogni modo,
con il vostro rigore, i misfatti dell’idolatria.” (Firmico Materno)
“Due provvedimenti stavano particolarmente a cuore a Firmico:
la distruzione dei luoghi di culto e la persecuzione dei seguaci
di altre confessioni religiose.” (Karl Hoheisel)
Mentre il Cristianesimo combatté fin dal principio, con “sacro” ardore, Ebrei ed “eretici”, in un primo momento, si astenne dal fare altrettanto con i pagani, chiamati dagli scrittori cristiani del IV secolo “héllènes” o “éthnè”. Il concetto, estremamente complesso sia dal punto di vista religioso sia da quello culturale, di “paganesimo” escludeva, naturalmente, Ebrei e Cristiani, cui, in seguito, si sarebbero aggiunti anche i Maomettani. La sua formulazione aveva una matrice di natura teologica e risaliva al periodo neotestamentario, in cui gli era stata conferita un’accezione negativa. In latino, il termine pagani fu tradotto, in principio, come “gentes” (per sant’Ambrogio “arma diaboli”), mentre, successivamente, con “pagani”, in quanto i seguaci degli antichi culti religiosi risiedevano per lo più in villaggi disseminati nella campagna. Il termine per designare i non cristiani, apparso per la prima volta in due iscrizioni latine del IV secolo, aveva dunque, nella comune accezione, il significato di “rurale”, ma anche di “civile” in opposizione a “militare”. Coloro che non erano soldati di Cristo furono chiamati in lingua gota “thiudos”, “haithns”, e in antico alto tedesco “heidan”, “haidano”, cioè, probabilmente, selvaggi!
Conquesti “selvaggi”, il Cristianesimo si mostrò, all’inizio, abbastanza ben disposto, seguendo, di fatto, la tattica secolare della Chiesa ufficiale: accattivarsi, per quanto possibile, le maggioranze per essere da queste tollerato e, dopo essere riuscito ad affermarsi, provvedere, sempre se possibile, al loro annientamento. Ancora ai nostri giorni, il teologo appartenente alla Chiesa evangelica K. Barth, seguace di un socialismo religioso, ribadiva che le altre religioni non erano altro che forme d’idolatria “da annientare totalmente per far posto alla rivelazione”.
I pagani, in principio, considerarono i Cristiani una setta ebraica dissidente come ce ne erano tante, degna dello stesso disprezzo riservato agli Ebrei, con cui condivideva l’intolleranza e l’oscurantismo religioso, pur non rappresentando, a differenza di questi, un popolo unitario. I pagani, ritennero tale setta, presto frammentatasi in una miriade di gruppi, un’accolita di “empi”. Per giunta, il fatto che i Cristiani si astenessero da ogni forma di partecipazione alla vita pubblica, li rendeva, ai loro occhi, moralmente sospetti. In sostanza, li si disprezzava, addossandogli la responsabilità di epidemie e carestie e, non di rado, risuonava il grido: “I Cristiani ai leoni!” In risposta a tutto ciò, i padri della Chiesa del periodo precostantiniano predicavano con veemenza la tolleranza, davano prova, nel pericolo, di grande eroismo, chiedevano con insistenza libertà di culto e rispetto, proclamavano la loro pazienza e la loro bontà, sostenevano già di camminare in cielo, pur essendo ancora sulla terra, invitavano ad amare tutti indistintamente, a non odiare nessuno, a non rispondere al male con il male, a sopportare le ingiustizie piuttosto che restituirle, a non intentare processi, a non rubare, picchiare, uccidere.
Mentre tale atteggiamento appariva, agli occhi dei pagani, come qualcosa di “vergognoso”, i Cristiani si sentivano “giusti e santi”. “Poiché sono consapevoli che quelli vivono nell’errore, si lasciano oltraggiare da loro…”. Intorno al 177, Atenagora spiegava agli imperatori pagani come fosse giusto “lasciare a ognuno la libertà di sceglierei proprio Dio”. Nel 200 circa, anche Tertulliano si batteva in nome della libertà di culti perché a ognuno fosse consentito di pregare il cielo o l’altare della Fides, di onorare l’unico Dio oppure Giove. “Dovrebbe essere un diritto di ogni uomo e una questione! libertà naturale che ciascuno venerasse ciò che ritiene degno e che la religione praticali dall’uno non recasse né vantaggio né danno a un altro…”. Origene, a sua volta, stilla una lunga lista di punti di contatto esistenti tra la religione cristiana e quella pagana anche al fine di migliorare la reputazione della prima – e non riteneva lecito l’oltraggio di alcuna divinità, neppure in caso di palese errore.
È possibile che alcuni padri della Chiesa fossero sinceramente convinti di quanto affermavano, ma altri parlavano per calcolo e mero opportunismo.
La tematica antipagana presso i primi autori cristiani
Nel momento in cui cominciarono a impetrare la libertà di culto, i Cristiani dettero inizio anche alla polemica contro i pagani, come a suo tempo avevano fatto con gli Ebrei e gli “eretici”. Tale polemica, in principio sporadica e quasi casuale, assunse rapidamente vaste proporzioni, e, dalla fine del II secolo, allorché i Cristiani cominciarono a sentirsi sempre più forti, s’intensificò nei toni e nei modi. Già a partire dal regnio di Marco Aurelio (161-180) si conoscono i nomi di sei apologeti cristiani e tre open apologetiche (di Atenagora, di Taziano e di Teofilo).
I temi antipagani erano numerosi ma, come accadrà anche in seguito, privi di organicità. Essi riguardavano la teogonia pagana e la mitologia, il politeismo, l’essenza della divinità, la natura e i modi della sua raffigurazione, l’origine diabolica dell'”idolatria”. Questa era ritenuta dai Cristiani il crimine peggiore e, nei primi tre secoli dopo Cristo, comportò per chi la praticasse l’espulsione dalla comunità.
Le argomentazioni prodotte dalla pubblicistica del primo Cristianesimo – ma anche successivamente – erano, in realtà, assai poco convincenti e prive di efficacia da un punto di vista letterario (Wlosok), così da esercitare un influsso pressoché nullo sull’opinione comune e tantomeno sul mondo politico. Erano paragonabili a una corrente piatta e opaca, destinata a non conoscere nei secoli sostanziali cambiamenti. Alcuni scrittori cristiani, come Eusebio e Attanasio, arrivarono a prendere di mira come bersaglio polemico persino i filosofi presocratici! Non da ultimo, già in età paleocristiana, furono messi alla berlina i racconti sulle avventure amorose degli dèi, considerati troppo osceni, nonché le rappresentazioni figurative del culto della divinità.
Agli occhi dei Cristiani i miti antichi apparivano come sconvenienti e terribilmente scandalosi, traboccavano di “amores”, “cupiditas”, vizi.
Arnobio di Sicca, maestro di Lattanzio, nei suoi sette libri pateticamente verbosi Contro i pagani, affermava che gli dèi pagani non erano altro che una stirpe “di cani e maiali”, “figure riprovevoli i cui nomi, una bocca pudica, provava ritegno persino a pronunciare”. Egli biasimava il fatto che, “alla maniera di bestie sfrenate”, le divinità pagane si abbandonassero alle passioni, si dessero “con folle avidità a rapporti di ogni genere”, a “sudici accoppiamenti”. Arnobio, al pari di altri “padri”, compilò una lunga lista di amori celebri, quelli di Giove con Cere, Leda, Danae, Alcmena, Elettra, con migliaia di vergini e di donne sposate, con giovanetti: “ovunque imperversa Giove…, al punto di avere l’impressione che la vittima designata sia nata solo per essere il seme della discordia, la causa di oltraggi, per fornire l’argomento di rappresentazioni oscene da tenere in quei teatri-cloache” che andrebbero demoliti alle fondamenta, così come molti testi e molti scritti andrebbero bruciati.
Se una divinità causava la rottura di un matrimonio, ciò era molto più grave dell’invio del diluvio universale! Le storie sugli dèi raccontate da Omero o da Esiodo sembravano ai Cristiani estremamente ridicole. Eppure lo Spirito Santo aveva potuto mettere incinta una fanciulla senza intaccare la sua verginità, secondo quanto asseriva con la massima serietà uno dei più noti esponenti del mondo cattolico dell’antichità, Ambrogio (la cui “grandezza” di certo “non risiede nell’originalità del pensiero”: Wytzes), ricorrendo all’esempio degli avvoltoi che si riproducono in assenza di rapporti sessuali. “Perché ritenere impossibile che si sia verificato per la madre di Dio, ciò che comunemente accade per gli avvoltoi? Essi concepiscono senza bisogno dei maschi e nessuno solleva dubbi in proposito; poiché invece Maria ha generato senza aver consumato il matrimonio, allora si mette in discussione la sua purezza”. Che i pagani seppellissero un’immagine della divinità, la piangessero e poi con grandi cerimonie ne festeggiassero la resurrezione destava il riso dei Cristiani che pure celebravano il Venerdì santo e la liturgia pasquale. Non meno “scientifiche” erano le prove addotte da Ambrogio per la resurrezione di Cristo: la metamorfosi dei bachi da seta, i colori cangianti del manto dei camaleonti e delle lepri, la resurrezione della fenice!
I Cristiani riprovavano il fatto che i pagani venerassero le creature invece del loro creatore e uno spunto polemico costantemente ricorrente riguardava la natura delle immagini delle divinità: “Si prostrano dinanzi a un abbozzo prodotto dalle loro mani”, deplorava Isaia. Sempre a questo proposito, il salmo 115 proclamava in tono di scherno: “hanno bocche ma non parlano, hanno occhi ma non vedono, hanno orecchie ma non odono, hanno nasi eppure non sentono gli odori…”. In realtà, la religione antica non identificava affatto tali raffigurazioni delle divinità con le divinità stesse. Ma agli occhi dei Cristiani questi dèi apparivano come “inutili morti” (Aristide), non potevano “né vedere, né sentire, né muoversi”. Secondo Gregorio di Nissa, l’immobilità delle statue degli dèi si trasmetteva, addirittura, a coloro che le adoravano! Questi idoli rappresentavano “il puro nulla” dietro cui si celavano, a giudizio di Eusebio, “molte azioni turpi”. Essi erano realizzati con ossa, materiale di scarto, paglia, e costituivano, perciò, un facile covo per insetti, blatte, topi, uccelli alla ricerca di un nido. Minucio Felice, Clemente di Alessandria, Arnobio e altri non si stancavano di descrivere il sudicio aspetto di queste immagini sacre: “volando sotto le volte del tempio, le rondini lasciano cadere i loro escrementi imbrattando la testa, il volto, la barba, gli occhi, il naso delle statue degli dèi… Ci sarebbe da arrossire per la vergogna…”. Le immagini degli dèi – affermava in tono irrisorio il vescovo ariano Massimino – vengono distrutte dai ragni e dai vermi. Nel Martyrium Polycarpi si legge che esse erano concimate con sterco di cane.
Degno di biasimo era, comunque, non solo adorare gli dèi ma anche fabbricare le loro statue. Tertulliano vedeva in questa attività un peccato mortale paragonabile, per gravità, all’adulterio e alla prostituzione. Come osservavano i Cristiani, le statue venivano scolpite intagliate, dirozzate, spalmate di collanti, “bruciavano nei forni perla terracotta, erano lucidate con strumenti rotanti e lime, lavorate con seghe, trapani, accette, modellate con la pialla. Non è follia tutto ciò?”. E non di rado esse erano fabbricate servendosi di “gioielli di prostitute, ornamenti femminili, ossa di cammello…” (Arnobio), I Gli artefici di simili opere erano, secondo Origene, artisti traviati, gente ciarlatana e intrigante, capace, per Giustino, di ogni misfatto, come, per esempio, concupire le giovani schiave che li aiutavano nella realizzazione delle loro creazioni diaboliche.
Molte, quando non la maggior parte, delle accuse mosse ai pagani potevano essere rivolte, con altrettanta fondatezza, ai Cristiani.
Clemente di Alessandria o Arnobio deploravano il fatto che alcuni artisti si servissero per le loro opere di modelli umani, addirittura di “prostitute senza pudore”: Prassitele per realizzare la Venere di Cnido si era ispirato alla sua amante Cratina. Ma non si può dire, forse, lo stesso di madonne, figure di santi, personaggi biblici? Fra Filippo Lippi per dipingere la Vergine con Gesù Bambino, prese ripetutamente a modello un bambino e la monaca Lucrezia Buti che, da lui indotta ad abbandonare la vita conventuale, successivamente divenne sua moglie. Nel suo ritratto delle figlie di Loth, Durer immortalò le due concubine del cardinale di Magonza Albrecht II (1514-1545), Kathe I Stolzenfeld e Ernestine Mehandel. Alla prima s’ispirò anche Grunewald per il suo “Matrimonio mistico di santa Caterina”, mentre alla seconda ricorse Cranach per la sua santa Ursula. Minucio Felice, un avvocato di origine africana attivo a Roma, criticava aspramente l’esposizione delle immagini degli dèi in occasione delle processioni. Eppure, nelle processioni cristiane venivano portate in trionfo intere teorie di santi: l’arcivescovo Albrecht di Magdeburg arrivò addirittura a servirsi di una cortigiana per rendere l’immagine di una “santa vivente”. E se il vescovo Eusebio vedeva nell’erezione di statue in onore degli dèi nient’altro che un inganno perpetrato ai danni di uomini ingenui, dalle menti ancora infantili, cosa dovremmo vedere noi nelle miriadi di statue di santi esposte in ogni luogo?
La polemica antipagana prendeva a bersaglio il fatto di prostrarsi dinanzi a opere prodotte dall’uomo. Ma anche i Cristiani s’inginocchiavano davanti alle raffigurazioni di Cristo e dei santi. I Cristiani condannavano l’usanza di baciare gli idoli, eppure essi stessi baciavano le immagini sacre e le reliquie. Sempre i Cristiani sostenevano che le rappresentazioni materiali degli dèi non erano una prova della loro esistenza, ma quelle di Cristo potevano esserlo, forse, dell’esistenza del Figlio di Dio? Agostino affermava che le immagini degli dèi non proteggevano gli uomini in battaglia; potevano, forse, farlo quelle dei santi? Clemente, Arnobio e gli altri godevano degli incendi dei templi e della loro rovina, mentre per assistere alla distruzione di Chiese cristiane bisognerà attendere la II guerra mondiale. (Già Lichtenberg sorrideva dei parafulmini posti sugli edifici sacri). I Cristiani ritenevano che i materiali impiegati per la fabbricazione degli idoli potessero essere destinati a scopi migliori; essi andavano protetti dai ladri “mettendoli accuratamente sotto chiave” (Arnobio), proprio come si faceva, in fondo, con i tesori delle chiese. Era, dunque, ben poca la fiducia che si riponeva in Dio! Sempre i Cristiani accusavano la religione romana e l’impero romano di essere il frutto del crimine, ma non si poteva dire altrettanto della Chiesa cristiana e dell’impero cristiano?
Inutile dire come, dietro l’idolatria, si celasse naturalmente il diavolo e, con lui, un’intera schiera di anime dannate. Fin dal principio, i Cristiani considerarono il culto degli idoli – caratterizzato da pratiche magiche e fede negli spiriti – legato direttamente al demonio. Alcuni – per esempio Tertulliano – videro anche il circo, il teatro, lo stadio come manifestazioni diaboliche. Solo i demoni erano in grado di generare l’inganno degli dèi, di abbindolare i pagani tenendoli lontani dal culto del Dio dei Cristiani, parlando per bocca degli oracoli, facendo degli idoli il loro nascondiglio, compiendo miracoli, riempiendo la bocca dei poeti di storielle menzognere, e la propria del sangue e del fumo acre dei sacrifici offerti in loro onore.
È interessante rilevare, comunque, come la polemica antipagana solo con il tempo avrebbe raggiunto proporzioni rilevanti, divenendo sempre più aspra. In principio, i Cristiani rappresentavano una minoranza che rischiava l’estinzione e, pertanto, fecero buon viso a cattivo gioco. Il mondo era quasi interamente pagano e di fronte a tale schiacciante supremazia, i Cristiani non potevano certo fare la voce grossa; piuttosto dovevano cercare un accomodamento in attesa del giorno in cui si sarebbero potuti sbarazzare dei loro avversari.
Tutto questo si trova già riflesso nel primo autore cristiano.