Mircea Eliade: La concezione della libertà nel pensiero indiano (prima parte)
Per il pensiero indiano l’ignoranza è “creatrice”. Nella terminologia delle due principali scuole vedantiche si potrebbe dire che il mondo è una creazione soggettiva dell’incosciente umano (ajhàna; cfr. Gaudapadìya, II, 12, Vedànta-sydclhànta-mucktàvalì, 9, 10), oppure è la proiezione cosmologica di Brahman, la “grande illusione” {maya), a cui la nostra ignoranza accorda realtà ontologica e validità logica (cfr. Sankaràchàrya, Sàrìrakabhàsya, I, 2, 22).
Senza incontrare sempre formule così precise, si può tuttavia affermare che il pensiero indiano scopre nell'”ignoranza” o “illusione” la fonte inesauribile delle forme cosmiche e del divenire universale. Il mondo, così come ce Io presenta la nostra esperienza, è multiplo, in eterno divenire, creatore di infinite forme. Ora questo modo, il Cosmo, non può essere che una “illusione” o la proiezione di una magia divina, poiché la sola realtà pensabile è sat (esse): l’Uno, eguale con sé, immobile, autonomo, senza “esperienza”.
La vita è dolore, ripete l’India dalle Upanisad in qua: sarvam duhkham. sarvam anityam. Ma la vita è nello stesso tempo infaticabile creatrice di infinite forme. “Forme” che appaiono e dispaiono, che nascono e muoiono, in un continuo divenire. La vita è dolorosa appunto perché è multiforme, dinamica, drammatica; in una parola, perché è integrata in un oceano di illusioni, e viziata dall'”ignoranza”.
La stessa originaria “ignoranza” che spiega il dramma dell’esistenza umana (sofferenza universale, ciclo transmigratorio) spiega anche la nascita continua delle forme cosmiche, la Creazione. Quando tutte le “anime” (purusàs) avranno riconquistato la libertà, l’autonomia perfetta – allora le forme cosmiche, la creazione, si riassorbirà nella sostanza primordiale (prakrti). Così credono le due scuole filosofiche “realiste”, Sàmkhya e Yoga.
La spiritualità indiana ha accettato molte volte questa creazione; ne sono prova tanti simboli di fecondità e di fertilità cosmica, che abbondano nell’arte e nella iconografia indiana (cfr. Ananda Coomaraswamy, Yaksas, I – II, Washington, 1928, 1931). Senza dubbio si tratta qui in buona parte di una spiritualità “popolare”, che trae le sue origini dagli antichissimi culti della Grande Dea o da una cosmologia acquatica. (Benché l’equazione acqua = sostanza vitale = Creazione s’incontri anche nei Veda e potrebbe essere considerata come una formula simbolica con valenze universali. In ogni caso, i punti di contatto e di ferace influenza reciproca tra i valori indo-ariani, vedici, e i valori culturali extra-ariani, siano pre-dravidiane, dravidiane, che austro-asiatiche o proto-sumeriane – in questo campo del simbolismo acquatico sono state possibili e hanno contribuito alle sintesi ulteriori indiane).
Ma se lasciamo da parte queste formule simboliche e iconografiche, di cui l’India non s’è potuta mai dispensare del tutto, osserviamo che anche una parte della mistica indiana ha accettato la Creazione. L’ha accettata, tuttavia, senza darle i I valore di realtà ultima e senza lasciarsi dominare da essa. Ha oltrepassato soltanto la posizione negativa, ascetica, “estremista” di fronte alla Vita e alla Creazione. Così, ad esempio, la mistica vaisnava e il tantrismo, benché sapessero che le “forme” siano illusorie, le hanno accettate come tali. Tanto il tantrismo che la mistica vaisnava hanno evitato la gnosi astratta (la formula Samkhya) e il monismo assoluto (di tipo vedantico). Hanno trasfigurato l’esperienza umana, dandole valori cosmici; ma non l’hanno disprezzata e non hanno cercato di sospenderla (come hanno fatto particolari forme “estremiste” di Yoga). La liberazione (mukti, moksa) non si consegue con lo staccarsi completamente dal mondo, ma, per servirci di una formula abbastanza nota, con la “rinunzia ai frutti degli atti umani” (phalatrisnàvairagya). L’uomo rimane nel mondo, accetta la Creazione, ma lungi dal parteciparvi passivamente, “trasfigura” ogni gesto umano trasformandolo in “rituale”. Torneremo tra breve sopra questa trasfigurazione. Notiamo tuttavia fin da ora che tanto nelle tecniche del tantrismo che nella mistica vaisnava, l’amore ha una importanza fondamentale; è, in una parola, lo strumento principale di “realizzazione”. Naturalmente, L’amore” nei suoi multipli significati; erotico-concreto nel tantrismo, passionale nel vaisnava. Abbiamo insistito sulla erotica mistica nel nostro lavoro: Yoga, Essai sur les origines de la mystique indienne (Paris, Ed. Geuthner, 1936, p. 231 e segg.), non vi insistiamo quindi qui. Ci permettiamo di osservare soltanto che tanto nel tantrismo quanto nel vaisnavismo l’amore è “trasfigurato”, cioè trasformato in un cerimoniale molte volte di valore cosmico (unione cerimoniale tantrica, maithuna).
Parlando tuttavia d’Eros, in rapporto con la Creazione, bisogna osservare che l’amore ha in India, come in altre culture, una funzione bivalente. Da una parte l’amore isola l’uomo dal mondo esterno, appunto come una ascesi. (Poiché la prima condizione dell’ascesi è l’isolamento dal resto del mondo, la solitudine, la vita interiore.
Dall’altra, l’amore fa uscire l’uomo da se stesso e lo “proietta” nella persona amata, tendendo ad identificarlo con essa e annientandogli in questo mondo l’individualità; è, con una espressione tecnica, lo spostamento del centro di gravità del proprio essere da se stesso nell’altro essere amato. Ho menzionato la funzione bivalente dell’amore (isolamento dal mondo, concentrazione su se stesso; proiezione nell'”altro”, perdita di se stesso) per non intendere in modo erroneo il senso che ha Eros tanto nella mistica vaisnava che nelle tecniche del tantrismo, a non voler menzionare anche le altre correnti saktiche indiane.
Il Cosmo, la Creazione, che è nata dall'”ignoranza” dell’uomo, ha anch’essa una funzione bivalente. Da una parte con le sue infinite illusioni trascina l’uomo nei cicli senza numero dell’esistenza; dall’altra lo aiuta indirettamente a cercare di realizzare la redenzione del suo “animo”, l’autonomia assoluta (mukti). Quanto più l’uomo soffre, cioè è più totalmente solidale col Cosmo, tanto più potente diviene il suo desiderio di liberarsi, la sete di salvarsi. Le “illusioni” e le “forme”, dunque, con la loro propria magia e con la sofferenza che è alimentata dal loro infaticabile divenire, vengono in servizio allo scopo supremo dell’uomo: la liberazione, la redenzione. “Da Brahman fino al filo di erba, la Creazione (srsti) esiste per il bene dell’anima, fino a che si raggiunge la suprema conoscenza” (Sàmkhya-pravacana-sutram, III, 47).
I testi indiani ripetono a sazietà che la causa della “schiavitù dello spirito” e, perciò, la fonte di sofferenza senza fine che fanno della condizione umana un permanente dramma è la “solidarietà dell’uomo col Cosmo”, la sua partecipazione, attiva o passiva, volontaria o involontaria, alla Creazione. Neti! Neti! esclama il saggio delle Upanisad: «tu non sei questo!» cioè: tu non appartieni al Cosmo; tu non sei necessariamente implicato nella Creazione per la legge della tua propria natura. La presenza dell’uomo nel Cosmo è, per il pensiero indiano, o un caso infelice o una illusione. Questa posizione negativa, quasi “polemica”, di fronte al Cosmos, della spiritualità indiana si verifica specialmente in quei sistemi di pensiero che accentuano la loro attenzione sulla ontologia. Se si afferma la realtà assoluta dello spirito – sia esso concepito come l’Uno (monismo vedantico) o come una infinità di spiriti senza nessuna possibilità di contatto tra di essi (pluralità Sàmkhya-Yoga) – allora è obbligatoria la svalorizzazione della Creazione e la denuncia della validità di ogni legame tra T’anima” e il Cosmo. L’essere non può avere nessuna relazione con il non-essere; mentre la Natura, essendo un divenire universale, non ha una realtà ontologica. Poiché anche per i sistemi Sàmkhya e Yoga le. “forme” cosmiche non hanno una realtà assoluta e si risolvono attraverso una “grande disillusione” (mahàpralaya) nella sostanza primordiale (prakrti).
Il neti! neti! ha dunque questo senso: il distaccarsi dell’uomo dalla Creazione. Dalle inesauribili matrici del Cosmo nascono milioni di forme, tutte con lo stesso destino: divengono, si trasformano e nascono per morire. Si potrebbe parlare di un “eterno ritorno” di tutte le forme cosmiche, diretto da un destino che sta alla base della Creazione: Karma. Questo Karma domina anche la vita dell’uomo, con la stessa efficienza con la quale si esercita sopra all’intero Cosmo. Preso come in una rete in questa legge di ferro della creazione, l’uomo soffre, muore e rinasce, per continuare la sua sofferenza in questa terra. Ma questo ritorno dell’uomo sulla terra questo ciclo infinito di reincarnazione è di fatto il prolungamento infinito di una esistenza larvale che significa piuttosto “morte” che “vita” (cfr. Il mio libro Yoga, p.309 sgg.). In verità, la vera “Vita” non può essere che plenaria, reale, felice. Ma per l’intera spiritualità indiana post-vedica, la condizione umana è tragica perché l’uomo non è né libero né felice. La vita sulla terra, in “ignoranza”, è una esistenza di larve; le manca l’autonomia spirituale e la beatitudine, le condizioni di una “esistenza reale”. Si potrebbe dire, dunque, che il Karma ha la funzione di un “inferno”. Poiché proprio come in altre religioni gli uomini vanno dopo la morte all”‘inferno” a causa dei loro misfatti e della loro ignoranza, in India gli uomini rinascono od alla condizione umana o in ogni specie di “vita” terrestre, per la forza del loro proprio Karma.
…segue
Nota: In foto Mircea Eliade in un suo viaggio in India