Mircea Eliade: La concezione della libertà nel pensiero indiano (ultima parte)
Nella maggioranza dei casi, l'”inferno” è il prolungamento di una vita larvale (in Grecia antica: anime senza memoria, ombre private della gloria, come ci mostra il canto XI dell’Odissea) o di una vita “carnale” di terribile sofferenza (la “sete” delle anime dei morti nelle religioni babilonese, egiziana, ebraica, ecc.; i tormenti sofferti dai peccatori nell’inferno cristiano, anime dunque che hanno esperienze umane intatte). Al di fuori dell’inferno propriamente detto, l’India identifica un “inferno” molto più tragico nella propria esistenza umana. Poiché vivere in “ignoranza”, così come vive la maggioranza degli uomini sulla terra, è, per il pensiero indiano, condurre una vita di “larve” e una vita di sofferenza continua. Si potrebbe dire che la tendenza dell’animo indiano verso l’annullamento della condizione umana, cioè verso “la beatitudine e l’autonomia”, equivale al desiderio degli altri popoli di evitare l'”inferno”;.con la sola differenza, tanto significativa, che l’India identifica l’Inferno in questa terribile vita larvale che è di fatto l’esistenza terrestre. Tutte le soluzioni soteriologiche indiane conducono alla conquista di una esistenza ontologica, alla autonomia spirituale e alla beatitudine: saccidànanda, nirvana, mukti. Senza sacrificare molto il vero alla necessità della simmetria, possiamo dire che questa è precisamente la struttura della esistenza paradisiaca nella concezione cristiana e occidentale in genere. Soltanto il Paradiso conferisce veramente L’eternità”, cioè la realtà assoluta e la beatitudine eterna (dnanda). L’inferno è una sopravvivenza che rassomiglia con la vita terrestre, per il fatto che sono rimaste le esperienze e perciò le sofferenze.
La “vita” terrestre è dunque una forma drammatica della “morte”. Il pensiero indiano identifica nell’immensa varietà delle forme e nel divenire universale – e perciò nella “moltitudine” e nel “movimento” – il principio della morte, del non-essere. La “vita” vera, e così anche la “realtà”, esclude il movimento, il divenire, il dramma; in una parola, esclude la Creazione.
Le vie che secondo la filosofia indiana conducono alla conquista della libertà, cioè alla autonomia dell'”anima” sono varie. Quasi tutti i sistemi (darsana) accordano alla conoscenza metafisica un valore soteriologico. Poiché, come dice Vàcaspati Misra al principio del suo commento, Bhamati «nessuna persona saggia desidera conoscere ciò che manca d’ogni certezza e ciò che non ha nessuna utilità… o nessuna importanza». Il medesimo filosofo comincia così il suo commento sopra al trattato di Isvara Krsna: «In questo mondo l’uditore non ascolta che quel predicatore che espone fatti la cui conoscenza è necessaria e desiderata. Coloro che espongono dottrine che nessuno desidera non sono ascoltati da nessuno…» (Tattva-kaumudt, Bombay 1896, p. 1). Ma la conoscenza che il mondo è disposto ad accettare è la conoscenza metafisica, la sola che pone e risolve il problema dell”‘anima”, indicando la via della liberazione.
Persino la “logica” indiana ha avuto, all’inizio, lo stesso scopo soteriologia). Manu usa il termine ànviksiki(“scienza del la controversia”) che è un equivalente del àtmavidyà, la “scienza dell’anima”, la metafisica (Manu-smrti, VII, 43). L’argomentazione giusta – quindi conforme con le norme – libera l’anima; questo è il punto di partenza della Nyaya. D’altronde, le prime controversie logiche, da cui è nata più tardi la scuola Nyaya, sono cadute appunto sui testi sacri, sopra alle differenti interpretazioni che si potevano dare ad una indicazione dei Veda; e ciò per poter realizzare più esattamente un rituale e per compirlo conforme alla tradizione. Ma questa tradizione sacra, espressa nei Veda, è “rivelata”. Cercare il senso delle parole vuol dire rimanere in contatto permanente con il Logos, con la realtà spirituale assoluta, sovrumana e sopra-storica. Come la pronunzia esatta dei testi vedici porta con sè una più grande efficacia nel rituale, così 1″‘intelligenza esatta” di una sentenza vedica porta con sè una purificazione della mente e perciò un contributo alla liberazione dello spirito.
Tutte le discipline spirituali avevano dunque come scopo supremo la conquista della libertà, la liberazione dai vincoli dell’ignoranza o dalla illusoria partecipazione alla Creazione. Praticamente, questo dissolidarizzarsi dal Cosmos si traduce con: “il capovolgimento di tutti i valori umani”. Ciò che si svolge sulla terra, e in tutto il creato, è precisamente il contrario di quello che è veramente. Tra l’esperienza umana e la “realtà assoluta” v’è la stessa differenza che c’è tra il non essere e l’essere, asat e sat. La via che conduce all’essere non può passare per il non-essere. Perciò chi vuole conquistare la libertà assoluta – cioè a dire chi vuole “divenire ciò che è”, realizzare il saccidànanda – deve cominciare con il negare e col sopprimere di fatto tutto ciò che lo lega alla “condizione umana”. “Capovolga” cioè tutti i valori umani.
Abbiamo qui da fare con la vecchissima concezione tanto frequente nei rituali brahmanici, che tutto quello che è “divino” è il contrario di ciò che è “umano”. Questa formula di inversione rituale si verifica costantemente nella teoria e nella pratica del sacrificio brahmanico; la mano destra dell’uomo corrisponde alla mano sinistra del dio, ecc. La magia del sacrificio realizza questo “capovolgimento”, attraverso cui l’officiante riesce a partecipare a una realtà inaccessibile alla condizione umana. Nel sacrificio brahmanico, attraverso la magia del rito, sat (.Prajàpati) coincide con asat (oggetti rituali ecc.), l’essere con il non-essere.
Questo “capovolgimento” che è tanto caratteristico del sacrificio brahmanico è rimasto il modello ideale di tutte le tecniche spirituali che l’India ha creato per la conquista della libertà dello spirito. Tutte si possono ridurre allo stesso tipo: la realizzazione di uno stato che sia esattamente contrario alla condizione umana. Poiché tutto ciò che esiste nel Cosmos – e perciò in primo luogo tutto ciò che caratterizza la condizione umana – è divenire, movimento, flusso, colui che desidera la liberazione deve cominciare con il sopprimere il movimento. Perciò le pratiche yogiche fissano le posizioni corporali stabili {asana) in cui lo yogin deve meditare. Perciò la respirazione, così agitata e variata, viene “ritmata” e in seguito quasi sospesa con le pratiche chiamate pranayama (cfr. il nostro articolo: Lo Yoga e la spiritualità indiana, in “Asiatica”, a. Ili, n.4, p. 234-235). La respirazione è l’espressione perfetta della vita, in continua agitazione modulandosi secondo stati biologici e psichici in stretta dipendenza col mondo esteriore. Il ritmo respiratorio è il primo passo verso lo “statico”; è, nello stesso tempo, la prima vittoria sopra la “vita”, sopra fumano”. Poiché la natura umana – precisamente come ogni altra esistenza condizionata dalle leggi del Cosmos – significa “vivere”, “modificare”, “divenire”. Il ritmo semplifica il “divenire”, tendendo col tempo ad annullarlo. Poiché, come si sa, lo scopo finale del pranayama è di ottenere la sospensione della respirazione. Cioè realizzare,.addirittura nella vita umana, una “sosta”. Ma questa sosta significa l’annullamento della condizione umana; cioè l’annullamento del “non-essere”, e l’avvicinamento all’essere che è immobile, autonomo, beato.
Tutta la pratica Yoga ha lo scopo di sospendere la “vita” sostituendo i movimenti e gli automatismi con “momenti statici”. Asana e pranayama sono due di quegli otto membri (anga) della tecnica yogica. Ma anche gli altri anga hanno lo stesso scopo: distruggere i germi di ogni azione umana. La purità e l’ascesi sono precisamente contrari alla condizione umana, perché questa tende a perpetuarsi con l’impurità e la vita sessuale. Parimenti, ogni specie di “meditazione” e di “contemplazione” è contraria alle leggi e agli automatismi della vita psico-mentale. Meditare significa, prima di ogni cosa, “fissare” la coscienza in un solo punto. La definizione della concentrazione mentale (dharana) che dà il trattato Yoga-sutra (III, 1) è proprio questa: “fissare la mente in un punto”. Il flusso psico-mentale, come ogni forma della vita, del divenire, è in continua agitazione, in continua trasformazione. Fermarlo, “fissarlo”, significa “capovolgere” questo “istinto”.
Infine, è inutile aggiungere che la stessa formula sintetica dello Yoga esprime in modo molto preciso questo “capovolgimento”. Patañjali definisce lo Yoga: «la soppressione degli stati di coscienza» (yogascittavrttinirodhah, Y.S., I, 2). Gli “stati di coscienza” sono la creazione del flusso psico-mentale; appartengono come tali, al divenire universale. Essi non sono attributi dello “spirito” (purusa) che, come tutto quello che è veramente “reale”, è statico, impassibile, beato. Sopprimere gli stati di coscienza significa sopprimere il simbolo della condizione umana. La tecnica yogica cerca di “sconvolgere” ogni specie di attività biologica e psico-mentale umana. La via verso la libertà è questa: fare il contrario di quello che ci suggerisce la vita, di quello che è “innato” nell’uomo. La necessità di realizzare “i contrari” si verifica, come vedremo subito, appunto in speciali tecniche tantriche.
Questo “capovolgimento” della psico-biologia umana si incontra anche implicitamente nella pratica buddhista della meditazione. Senza parlare dei tratti comuni generali tra il buddhismo e lo Yoga, che abbiamo esaminato nel nostro libro Yoga (p. 166 e sgg.), bisogna ricordare qui, di passaggio, l’importanza che accordano i testi ascetici buddhistici alla interruzione degli automatismi psico-biologici. Persino in un “discorso” così poco tecnico come è il Dighanikaya XXII, si incontrano raccomandazioni di questo tenore: «un asceta, quando cammina, ha una compita intelligenza del camminare; quando è fermo ha una compita intelligenza dello star fermo… e qualsiasi stato abbia il suo corpo intende perfettamente questo stato ecc.».
L’uomo compie tutte queste funzioni automaticamente senza darsi conto di ogni gesto in parte, senza essere “presente” alla propria vita organica e psichica. Questo automatismo bio-psicomentale caratterizza la condizione umana. Il primo passo verso la “liberazione si fa sopprimendo questo automatismo; cioè “capovolgendo” la condizione umana, opponendosi con ogni prezzo a ogni specie di funzione vitale. E, quando la funzione vitale non può essere soppressa (p.e. il mangiare, il camminare, il gesticolare, ecc.) essa è “intesa”, cioè fatta presente permanentemente all’attenzione e alla comprensibilità del l’asceta. Questa “presenza” – che si raccomanda in moltissime tecniche ascetico-contemplative indiane – è una formula psichica del “reale”. Il divenire, cieco e privo di senso, significa infatti l'”assenza” dell’uomo, la precarietà della sua iniziativa nel Cosmos, la sua partecipazione incosciente e involontaria al dramma cosmico; in una parola, l’irrealtà della vita umana.
La via verso il supremo “capovolgimento” della condizione umana implica, come abbiamo mostrato altrove (Cosmical homology Yoga, “Journal of the Indian Society of Orientai Art”, voi. V, Calcutta, 1938, p. 188-203), un preliminare omologarsi dell’asceta con i principi regolatori del Cosmos. La liberazione finale presuppone una tappa preliminare di perfetta armonia dell’uomo con i ritmi cosmici. Non si può ottenere un completo dissolidarizzarsi dell’uomo dal Cosmos se l’uomo non si è egli stesso prima perfettamente “cosmizzato”. Dal Caos non si può giungere direttamente alla libertà. La fase intermediaria è il “Cosmos”, cioè la realizzazione – in tutti i livelli della vita biomentale – di un ritmo e di una armonia perfetta. Ma, questo ritmo e questa armonia ci è indicata proprio nella struttura dell’universo attraverso l’ufficio “unificatore” e direttivo che hanno gli astri, specialmente la luna. Il ritmo lunare governa e “unifica” i livelli diversi di realtà: la pioggia, la vegetazione, il mare, la donna ecc. La luna ha, d’altronde, una certa somiglianza con la condizione umana: ha prima di tutto “la vita”. La luna “diviene”; nasce, cresce e muore – precisamente come l’uomo. Il sole, sempre uguale a se stesso, è in certo modo esteriore alla struttura della vita umana. La luna, al contrario, “vive”; ma vive ritmicamente, armonicamente, cosmicamente. E, prima di sorpassare la condizione umana, l’asceta bisogna che divenga egli stesso un cosmo perfetto. Questo si ottiene specialmente con un omologarsi ai ritmi cosmici, specialmente a quelli lunari (cfr. il nostro studio Cosmical homology and Yoga).
Questo conformarsi ai ritmi cosmici (“cosmizzazione”) è, ripetiamo, solo una fase intermedia, che precede la liberazione. Colui che si ferma a questa tappa non conquista la libertà, l’autonomia assoluta. A questo omologarsi segue in modo necessario – come si verifica specialmente nelle tecniche tantriche – un “capovolgimento” completo. Questo capovolgimento è evidente, per esempio, nell’erotica mistica (tantrismo). L’esercizio finale in queste oscure pratiche erotiche ha precisamente questo scopo: boddhicitam notsrjet. Con il “ritorno del seme” si realizza uno stato assoluto, al di là di ogni “contrario”, una “totalità” che la condizione umana non può conoscere. Precisamente come nel sacrificio brahmanico l’officiante riesce ad ottenere la coincidenza del Prajàpati (sat) con gli oggetti rituali (sai), così in queste pratiche tantriche si ottiene la coincidenza dell’essere (del “tutto”) con il non-essere (l’individuo). Essendo ancora in vita, l’asceta diviene tuttavia “reale” e “libero”. Ma – e questo è importante e da sottolinearsi – la libertà, l’autonomia spirituale piena, si ottiene con un atto di “capovolgimento”, di negazione delle leggi e degli istinti umani. Non importa che il “capovolgimento” ha, nel tantrismo, un senso fisiologico concreto (il “ritorno del seme”) mentre in altre discipline ha un senso di attitudine spirituale {phalatrsnàvairàgya di Bhagavad-Gità: “rinunzia al frutto dei propri atti”). Significativo è il fatto che tutte le soluzioni che l’India ha offerto al problema della libertà si possono riassumere nella seguente formula: il capovolgimento di tutti i valori e la soppressione (attraverso i “contrari”) di tutti gli istituti umani. E siccome la condizione umana è in genere un risultato dell’evoluzione cosmica – la via che conduce alla libertà ha bisogno di dissolidarizzarsi dal Cosmos. Ma, tanto il “capovolgimento” dei valori e degli istinti umani, quanto il preliminare omologarsi e il dissolidarizzarsi del Cosmos non presuppone una concezione negativa della “vita”. L’India, con la coincidentia oppositorum, accetta, in ultima analisi la, “vita”; poiché per il pensiero indiano, T’essere” può coincidere con il “non essere” e precisamente come Prajàpati può coincidere con gli oggetti rituali, allo stesso modo uno spirito libero può continuare la sua vita terrena (jivanmukti).
fonte Heliodromos, Primavera 1996