Un laboratorio di idee per la nuova Germania (prima parte)

Tratto dalla Rivista della Thule Italia la prima parte di un importante contributo di Maurizio Rossi.

Un laboratorio di idee per la nuova Germania

Dall’opposizione al regime di Weimar all’avvento del nazionalsocialismo

“Nel periodo compreso tra la fine della prima guerra mondiale e l’avvento del nazionalsocialismo si svilupparono in Germania, sullo sfondo di alcune singole personalità intellettuali, una quantità di circoli e gruppi, che esercitarono una critica della democrazia in genere, e dei presupposti ideologici e politici della repubblica di Weimar in particolare. (…) Questi circoli esercitano una certa influenza sul clima politico degli anni ’20 anche se, è inutile dirlo, non avrebbero mai potuto costituire un pericolo per le istituzioni repubblicane se Adolf Hitler non fosse riuscito a creare un grande partito di massa.”

(Adriano Romualdi)

I vincitori del primo conflitto mondiale vollero con il trattato di Versailles umiliare fino in fondo la Germania sconfitta, negandole ogni qualsiasi dignità, imponendole arrogantemente un miope e vendicativo trattato di pace, contenente pesanti ritorsioni come la cessione delle colonie che passavano sotto il mandato della Società delle Nazioni, la perdita dell’Alsazia e della Lorena ad occidente e la mutilazione delle province dell’Est della Prussia orientale, dell’alta Slesia e del “corridoio” di Danzica, che potette usufruire dello status di città libera. Inoltre il territorio della Saar venne posto sotto l’amministrazione dell’occupante francese per una durata di 15 anni e per altrettanti anni venne sancita la smilitarizzazione del territorio della Renania. Le forze armate tedesche subiranno, sempre per il carattere vessatorio delle clausole, la riduzione a centomila unità con l’aggiunta della soppressione dell’arma aerea e in più ricadrà sulla Germania il fardello di un insostenibile piano di riparazioni che la sprofonderà nel baratro della miseria con un’economia a pezzi.

Comprensibilmente le ricadute politico-sociali della sconfitta e del trattato di resa non ebbero altra conseguenza che inasprire la già tesa instabilità politica interna della Germania, accentuandone le lacerazioni e scatenando tendenze centrifughe verso una radicalizzazione del conflitto politico che andò polarizzandosi verso le sue estreme, cioè il versante nazionalista e quello marxista. Non dimentichiamoci che la sconfitta militare, giunta dopo che per quattro anni di guerra era sembrata in più occasioni concretizzabile una vittoria decisiva, aveva lasciato nella vita pubblica tedesca un’impronta indelebile che era andata molto più in là del semplice contesto militare, annunciando una crisi di proporzioni drammatiche che avrebbe investito tutti gli aspetti della vita politica e sociale. Con una consapevolezza diffusa che, in parte, alla sconfitta aveva anche contribuito il cedimento del fronte interno, quello che l’Alto Comando delle forze armate tedesche aveva definito come “il tradimento della pugnalata alla schiena” operato dai civili manovrati dalla fazione della sinistra socialdemocratica della SPD che aveva, durante il conflitto, logorato e non poco il fondamentale “fronte interno”, incrinandone irrimediabilmente il patriottismo e la volontà di vittoria facendo leva sulle restrizioni e le miserie portate dalla guerra. Grazie a questa meticolosa propaganda e alla capillare azione disfattista era riuscita, nel 1917, ad organizzare numerose agitazioni e scioperi e sempre all’inizio del 1918 la situazione interna tedesca apparve seriamente compromessa dalle agitazioni anarchiche dei lavoratori marxisti e dall’ampliarsi della piaga del banditismo nelle campagne.

Il tracollo militare costringerà i vertici militari ad avvallare le riforme istituzionali democratiche invocate a gran voce dalla socialdemocrazia, come la proclamazione della repubblica parlamentare e l’esilio per il Kaiser. Come se non bastasse si manifestarono anche i propositi insurrezionalisti promossi dalla frazione filo-bolscevica del movimento socialdemocratico capitanata dai leader “spartachisti” Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Furono proprio gli spartachisti, nelle tumultuose giornate che registrarono la sconfitta militare e la contrastata nascita della Repubblica di Weimar, i protagonisti del velleitario tentativo insurrezionale volto all’instaurazione della repubblica dei Soviet. Nonostante fossero una componente politica altamente minoritaria riuscirono a far scatenare una anarcoide rivolta tra i marinai della flotta di Kiel che a loro volta crearono un consiglio autogestito riproducendo il modello dei soviet bolscevichi, facendosi promotori di una efficace propaganda di ammutinamento che ebbe successo in molte unità dell’esercito. In questa maniera i leader spartachisti fecero precipitare sempre più la già tesa situazione acuendo l’insanabile contrasto tra loro e la maggioranza governativa che tutto voleva fuorché far scivolare la Germania nell’orbita sovietica. La contrapposizione tra il riformismo marxista legato al formalismo istituzionale rappresentato dalla SPD e il massimalismo leninista legato all’appello alla “piazza” della Luxemburg e di Liebknecht arrivò ad un punto di non ritorno e costrinse i capi della socialdemocrazia a fare appello a quella parte dell’esercito che non si era ammutinata per salvare le istituzioni e ripristinare la legalità, in sostanza gli esponenti socialdemocratici dovettero sporcarsi le mani autorizzando i reparti della Reichswehr e le costituite unità dei volontari nazionalisti dei Freikorps a stroncare con fermezza i focolai dell’insurrezione bolscevica.

Molti fra coloro che vissero l’esperienza dei Freikorps si fecero, una volta tornati alla vita civile, consapevolmente portatori di una nuova identità collettiva, di gruppo, di un nazionalismo radicale interpretato come militarizzazione delle istanze politiche, ma soprattutto di una identità forte, virile e cameratesca intesa come forma e percorso per ritrovare la stima di sé, l’orgoglio e l’onore traditi dai politicanti e dai disfattisti, vollero, in questo modo, essere i portavoce di una crisi culturale e politica che intesero risolvere riscoprendo i veri valori dell’uomo e il vero spirito del popolo per superare il nulla che lo sprofondamento del vecchio mondo aveva portato all’indomani della fine della guerra, insomma un insieme di nuovi valori che costituiranno i riferimenti germinali di quell’arcipelago di circoli, sodalizi, congreghe e confraternite ed anche effimeri gruppi politici che nell’insieme venne raffigurato come Konservative Revolution.

Gli attivisti e gli intellettuali del radicalismo nazionalista, che sostanzialmente rappresentarono l’architrave della Konservative Revolution (nell’accezione nazional-rivoluzionaria e volkisch), incarnarono un percorso esistenziale nato durante la partecipazione alla guerra mondiale, che per costoro rappresentò il punto di svolta e di non ritorno, un’esperienza che attraversarono senza farsi travolgere e che poi svilupparono successivamente nei ranghi dei Freikorps, elaborando una cultura radicalmente alternativa ai postulati della società borghese. Una cultura che embrionalmente era sorta nella vita di trincea, durante gli assalti alla baionetta, dall’essenziale semplicità del campo di battaglia, dal fraterno cameratismo dei soldati, dalla idealizzazione della guerra che cessava quindi di essere, per loro, un demone da esorcizzare o una deplorevole e fredda necessità per tornare invece ad essere un valore, uno strumento di maturazione e di crescita. Partendo da questa cultura trasgressiva e non pacifista comprendiamo come il conflitto mondiale, per le note novità apportate dall’utilizzo di un notevole spiegamento di mezzi e di uomini nell’ottica di una organizzazione bellica moderna, apparve come un banco di prova di grande entità dove gli uomini, i combattenti, ma il discorso valeva anche per i civili delle retrovie, potevano e dovevano superarsi, forgiare se stessi attraverso la lotta e le terribili avversità, andare al di là di loro stessi oltre le stesse umane possibilità per morire interiormente e rinascere infine come uomini nuovi.

La guerra doveva diventare il parametro di raffronto, lo strumento mediante il quale favorire la decisiva rivelazione dell’intima essenza dell’uomo, in quanto gli permetteva di essere sé stesso consentendo alle facoltà umane e spirituali di potersi sviluppare pienamente. Questa concezione di pedagogia eroica, come sappiamo, verrà poi ampliata e organicamente ordinata dal nazionalsocialismo e troverà conferma, nel corso della seconda guerra mondiale, nella potenza guerriera sviluppata dalle Waffen SS. Possiamo comprendere pertanto come per questi uomini differenziati la concezione tecnologicamente moderna della guerra non apparve mai come un ostacolo per la configurazione di un nuovo tipo umano che verrà riassunto plasticamente nella figura del “soldato-politico”, figura che verrà poi potentemente riassunta in chiave nazionalsocialista da Joseph Goebbels e ricondotta alla persona del miliziano della SA, ovvero all’uomo di milizia che sarebbe stato capace, una volta acquisita la piena padronanza nel dominio della tecnica, a dare forma ad una sintesi organica tra l’arcaica vocazione guerriera e la nuova e totale mobilitazione prevista dall’industrializzazione della società. Tale sintesi implicherà un naturale indurimento della sensibilità e un eroico e aristocratico distacco che non potrà che potenziare una disciplina dell’anima e della mente. In pratica significava che la Frontgemeinschaft, la comunità del fronte da esperienza storica ed esistenziale doveva trasferire immutati i nuovi valori che la sostanziavano nel contesto civile per porsi come modello spirituale e politico di vita per una rigenerata comunità nazionale e popolare che proprio nella comunità soldatesca avrebbe trovato il suo coronamento.

Molte vicende politiche e culturali che incisero nel panorama tedesco dalla fine della grande guerra fino al 1933 spesso furono caratterizzate dall’influenza che su di esse ebbe l’esistenza di un vivace movimento culturale, politico e spirituale che si dichiarò subito deciso a fare tabula rasa delle rovine del XIX secolo, a chiudere con la lunga stagione contrassegnata dalle eredità dell’illuminismo e, finalmente, deciso a porre fine alle idee dell’89, al fine di poggiare le fondamenta di una nuova concezione della vita e della società. Questo movimento e laboratorio di idee, spesso caotico e irrazionale al suo interno, si era già manifestato, con maggiore o minore intensità, pressoché dappertutto in Europa, ma è stato proprio in Germania che ha avuto modo di agire più profondamente che altrove, ed in tutti i campi della cultura, della vita e della società. Venne definito, soprattutto all’indomani del secondo conflitto mondiale, con la denominazione sommaria di Konservative Revolution di “Rivoluzione Conservatrice”, una concettualizzazione eccessivamente ampia che voleva raccogliere e classificare in un unico grande contenitore tanti aspetti e esperienze differenziate, anche molto radicalmente fra loro tanto da spingersi in percorsi e direzioni spesso divergenti, che non avevano mai presentato un unico aspetto unitario, una sola convergente immagine che non fosse la comune ostilità verso il mondo democratico-liberale del parlamentarismo e la tanto vituperata e decadente società borghese. Per Arthur Moeller Van Den Bruck, uno dei più autorevoli esponenti di questo movimento di idee, la presa di posizione in tal senso sarà più che evidente: “Assistiamo all’evento per cui tutto quel che non è liberale si unisce contro quel che è liberale. Noi viviamo i tempi di questa agitazione mondiale, che si produce per una estrema consequenzialità, e che si esplica in una rivoluzione radicale che prospetta la perdita da parte del nemico della sua posizione di potere: tale nuova situazione mondiale esordisce con un allontanamento dall’illuminismo.” E con maggiore decisione aggiungeva: “Nel liberale la gioventù tedesca individua il nemico.” Infatti il liberalismo incarnava l’ideologia dominante della modernità che aveva reso l’economia autonoma rispetto alla morale e alla politica, sulla base di un esasperato egoismo individualista falso tanto dal punto di vista descrittivo che da quello normativo.

In pratica quel movimento di idee, che per precisione sarebbe preferibile definire invece come Deutsche Bewegung, formò pertanto un nutrito e composito universo di fervide intelligenze, talvolta unite anche se non sempre organicamente ad audaci cospiratori e a scaltri avventurieri, le cui profondità di analisi e di ampiezza di vedute meravigliano e sconcertano tutti coloro che lo scoprono per la prima volta. Personalità senza dubbio così differenti tra di loro come Ernst Junger, Ernst Von Salomon, Oswald Spengler, Arthur Moeller Van Den Bruck, Ernst Niekisch, Gottfried Benn, Karl Otto Paetel, Hans Zehrer, Wilhelm Stapel, Othmar Spann, ecc… che permearono così profondamente una effervescente atmosfera alimentando istanze di trasformazione e di rinnovamento così radicali tanto da lasciare una sensibile e formidabile traccia nella storia della Germania moderna.

Sono coloro la cui opera suscitò e animò con istanze costantemente all’avanguardia una moltitudine di cenacoli di pensiero e di studio come lo Juni-Klub e l’Herren-Klub sorti attorno alle riviste Gewissen e Der Ring animate da Moeller Van Den Bruck, oppure il Tat-Kreis che ruotava attorno alla rivista di Hans Zehrer (pubblicazione che si riconduceva al pensiero di Werner Sombart), Die Tat, di confraternite cameratesche che riproponevano le usanze e le impostazioni dei Mannerbunde, nuovi “ordini virili” fondati sul cameratismo e una etica spartana e militare dell’esistenza che attiravano numerosi giovani; di organizzazioni semisegrete a carattere politico-esoterico come poteva essere stata la Thule-gesellschaft, di circoli letterari, di associazioni politiche, spesso microscopiche più simili a gruppuscoli che a veri partiti, di “fratellanze” di reduci unite a doppio filo ai veterani dei Freikorps, oppure comunità agricole volkisch come quella degli Artamani che con il duro lavoro nei campi intendevano realizzare una corporazione eroica del contadinato in netta antitesi con la realtà politica meccanicistico-capitalista delle metropoli che accusavano di ogni nefandezza e corruzione. Per gli ambienti volkisch del Deutsche Bewegung era di importanza fondamentale evidenziare il rapporto storicamente conflittuale esistente tra il Bauerntum, fedele custode dei valori eterni del suolo e fonte perenne delle forze più sane e vitali del sangue e del Volk ,e, la crepuscolare decadenza manifestata dal “borghese”, l’infecondo nomade partorito dall’imbastardimento cosmopolita del mondo moderno. A tal proposito saranno gli attivisti del Landvolkbewegung a fronteggiare le misere condizioni di vita del ceto agricolo e soprattutto i progetti speculativi di rapina dell’usura finanziaria capitalistica che voleva a tutti i costi depredare i contadini delle loro terre e dei loro beni. Il movimento contadino inalberando la bandiera nera recante l’aratro incrociato con una spada dette inizio alla protesta, scatenando, nel 1928, violentissime rivolte nello Schleswig-Holstein, nell’Oldenburg, in Prussia orientale e nel sud della Slesia contro i centri del potere bancario, colpendo con chirurgica determinazione gli uffici delle imposte, gli edifici statali, le sedi dei partiti governativi e anche le residenze dei politicanti ritenuti responsabili e sul libro paga dei capitalisti. Manifestazioni popolari, attentati dinamitardi e scontri con la polizia infiammeranno gli animi e crearono non pochi pensieri alle istituzioni di Weimar, inoltre la rivolta contadina assumerà sempre più toni marcatamente anti-usurocratici e anti-capitalistici con precisi riferimenti ad un “socialismo prussiano” di spengleriana memoria e l’adozione di tali tematiche faciliterà l’azione propagandistica di inserimento dei militanti nazionalsocialisti nella protesta, che in breve riusciranno ad egemonizzare mietendo consensi fra gli agricoltori ed estromettendo gradualmente la concorrenza degli attivisti comunisti. Sarà il magnifico romanzo, pubblicato nel 1929, intitolato Contadini, bonzi e bombe, scritto dal romanziere nazionalsocialista Hans Fallada, che aveva vissuto di persona la rivolta come cronista di un quotidiano locale, a consegnare alla letteratura politica e alla storia il significato autentico della ritrovata dignità contadina e della sua disperata lotta.

fine prima parte

Share

Lascia un commento