Focus Patrius: metafisica e metapolitica del culto italico del Fuoco (prima parte)
Nei giorni del torbido rimestare mediatico nel letamaio della politica democratica, dedichiamo questo contributo alla più pura radice della nostra Patria.
Pro aris et focis
In questa esposizione non mi propongo di fornire informazioni in genere sul Fuoco nel culto pubblico e privato in Roma, peraltro facilmente reperibili in ogni trattato o manuale di religione romana. Mi riservo invece, piuttosto, di interpretare l’essenza ed il significato del culto del Fuoco, alla stregua dei criteri forniti dal metodo tradizionale di indagine, che, presupposta la ricerca e l’acquisizione scientifica dei dati, li colloca e li sistema in una visione sacrale del mondo e della storia.
Annota il Dumézil, in un passo consacrato ai Fuochi del culto pubblico in Roma, che i Romani, a differenza degli Indiani, « non sono metafisici » (1). Tale osservazione, da ritenersi valida per la parte in cui si limita a constatare che l’antica religione romana non presenta speculazioni metafisiche intorno ai propri contenuti, deve tuttavia essere integrata da un duplice ordine di considerazioni, atte a sbarrare l’accesso ad ogni interpretazione meramente naturalistica e profana di essa.
Da un lato, infatti, giova ricordare che anche in altre culture, quali l’ellenica e l’indiana, la riflessione propriamente filosofica sul dato religioso appare solo in epoca più tarda (in quella post-omerica in Grecia e post-vedica in India).
(1) G. DUMÉZIL, La religione romana arcaica, Milano 1977, p. 285.
Dall’altro, si deve tener conto del particolare stile della religiosità romana, diverso sia da quello della religiosità greca che da quello della religiosità indiana, delle due culture. cioè, che maggiormente esercitarono sul dato religioso la riflessione filosofica. Per limitarci al confronto fra Roma e Grecia, si può senz’altro aderire al punto di vista del Kerényi, il quale identifica lo stile religioso romano « come un atteggiamento di ascolto, aperto ad ogni segno e sempre pronto ad adattarsi ad esso », laddove l’esperienza greca culmina in « quella visione che accanto alla religione racchiude in sé anche la filosofia e l’arte » (2).
In altre parole il Romano, immerso in un mondo intessuto di potenze divine (numinia), agenti, oltre che nei grandi eventi naturali e pubblici, anche nelle modeste manifestazioni della vita quotidiana, si preoccupa di instaurare e mantenere con esse, mediante l’azione cultuale compiuta ordinatamente (rite), un giusto rapporto, quella iustitia adversum deos, nella quale, secondo Cicerone (De nat. deor. I, 116), consiste l’essenza della religio.
Come si vede, si era ben lontani, in Roma, da forme di naturalismo superstizioso, sussistendo invece un particolare rapporto attivo con il sacro, che qualifica l’atteggiamento religioso proprio dei Romani, in modo da poterlo definire come metafisica attiva.
Ciò non toglie, tuttavia, che nel corso della loro storia i Romani assimilassero anche l’aspetto filosofico-speculativo della religiosità, introdotto in Roma dalle grandi correnti della filosofia ellenica (stoicismo, platonismo ecc.). Si trattò per i Romani, malgrado alcune resistenze iniziali, di cui fu massimo portavoce Marco Porcio Catone, di un’operazione del tutto naturale, che, propugnata dal famoso circolo degli Scipioni, si svolse senza difficoltà intrinseche, considerata l’affinità etnica che legava i Romani alle stirpi elleniche ed il terreno già reso fertile dal pitagorismo della Magna Grecia, la quale venne ben presto integrata nello Stato romano.
(2) C. KERÉNYI, La religione antica, Roma 1951, pp. 120-121.
È senz’altro lecito, in conseguenza, tentare di sondare l’essenza metafisica del Fuoco di Vesta avvalendoci, pur nell’assenza di un’esplicita formulazione romana arcaica al riguardo, di ogni dato utile proveniente dalla Tradizione classica in genere. In tal modo si potranno ottenere delle interessanti trasposizioni analogiche, utilizzabili per cercare di intuire la dimensione profonda del culto del Fuoco presso i Romani.
Una prima indicazione precisa, sufficiente a scartare ogni ipotesi di interpretazione meramente antropologica o sociologica dell’ignis Vestae, ci viene fornita da Plutarco (Numa, 9), il quale riferisce la credenza « che Numa formasse pure il tempio di Vesta rotondo in mezzo al quale fosse conservato il fuoco sempre vivo, per voler imitare non già la figura della Terra, quasi che essa fosse appunto Vesta, ma la figura di tutto l’universo, nel cui mezzo pensano i Pitagorici che sia posto il fuoco, chiamato da loro Vesta o Unità » (3).
Dell’indicazione di Plutarco qui interessa, oltre al riferimento implicito al pitagorismo di Numa, peraltro rispecchiante una vetusta tradizione, soprattutto l’identificazione del Fuoco di Vesta con il Fuoco e l’Uno dei Pitagorici, due termini che vennero largamente utilizzati dalla filosofia ellenica (il primo inizialmente da Eraclito, il secondo soprattutto da Plotino) per designare la Realtà suprema, l’Assoluto, Dio.
Ai fini della presente ricerca interessa in modo particolare l’accostamento della concezione del Fuoco del pitagorico Ippaso a quella del filosofo Eraclito, riferita da varie testimonianze. Infatti, la concezione di Ippaso consente di individuare con certezza quale fosse la dottrina pitagorica del Fuoco che, come abbiamo visto, può estendersi anche al Fuoco romano di Vesta, secondo la precisa indicazione di Plutarco. Inoltre, l’attribuzione ad Ippaso ed Eraclito della medesima concezione consente di attingere dal secondo ulteriori preziose nozioni intorno alla essenza di quel Fuoco, anche perché si ritiene che Eraclito, vissuto tra il VI e V secolo a.C., abbia appreso da Ippaso, che lo precedette di poco, la dottrina del Fuoco.
(3) Trad. di C. MAES, in: Vesta e Vestali, Roma 1884, p. 10.
In tal modo la concezione di Eraclito, sia in quanto rispecchia temporalmente un punto di vista abbastanza arcaico, sia in quanto si identifica, almeno nella sua origine ed essenza, con quella del pitagorico Ippaso, permette, con sufficiente verosimiglianza, di rendere, per quanto possibile, filosoficamente esplicito il significato metafisico del Fuoco di Vesta che, per le tendenze non speculative della religione arcaica dei Romani, rimase implicito, ma non per questo fu ad essi meno chiaro ed evidente.
Prima di passare a considerare specificamente la dottrina di Eraclito, ritengo opportuno citare almeno due delle testimonianze che accomunano Ippaso ed Eraclito nella medesima concezione del Fuoco, dalle quali si può facilmente inferire il carattere sacro dello stesso:
« Eraclito e Ippaso da Metaponto fanno principio di tutte le cose il fuoco; che affermarono da fuoco tutto nascere e in fuoco tutto finire» (AET., I 3, 11-D, 283).
« Supposero un dio il fuoco il metapontino Ippaso e l’efesio Eraclito » (CLEM., Protr., 6, 64, p. 49, 3 Stahl.) (4).
(4) PITAGORICI, Testimonianze e frammenti, a cura di Maria Timpanaro Cardini, fase. I, Firenze 1958, p. 97.
Il Carattere metafisico, divino del Fuoco è ribadito da Eraclito in modo da impedire qualsiasi tentativo di interpretazione naturalistica. Per il filosofo di Efeso, infatti, il Fuoco è sapiente, phrónimon (B 67), e, nella sua essenza folgorante, uranica, governa tutte le cose, panta oiakizei (B 64), svolgendo così la medesima funzione provvidenziale del sommo Zeus-Iuppiter, del quale la folgore è l’arma per eccellenza.
Il frammento eracliteo, tuttavia, che, a mio avviso, racchiude compiutamente la dottrina metafisica del Fuoco, esposta in lapidaria sintesi da un pensiero veggente che lascia trasparire un impressionante senso di cosmica vastità, è il seguente (B 30):
« Questo ordinamento del mondo, il medesimo per tutti, nessuno degli dèi e degli uomini lo ha fatto, ma è, ma è sempre stato, è, e sempre sarà: un fuoco sempre-vivo, che di misura si accende e di misura si spegne » (5).
Questo testo fondamentale fornisce almeno tre nozioni essenziali di carattere metafisico sulla realtà del fuoco.
Innanzitutto esso è il supremo Principio metafisico dal quale deriva l’ordine cosmico, che pertanto non può essere fatto risalire né agli uomini né agli dèi, intesi questi ultimi come Potenze subordinate al Principio supremo, il Fuoco, che in Eraclito assume appunto le caratteristiche provvidenziali ed ordinatrici del sommo Zeus, padre degli dèi e degli uomini, con il quale pertanto giunge di fatto ad identificarsi. Esso, quale supremo principio uranico, è artefice e garante dell’ordine universale, lo stesso che la Tradizione indiana conosce con il termine di rta. Facile è quindi, in proposito, il parallelismo con la nozione indiana di Brahmani, l’Unità cosmica da cui tutto proviene ed in cui tutto si risolve, alla quale taluni hanno appunto assegnato il nome di Agni (lat. ignis), il Fuoco (6).
Esso inoltre è sempre-vivo, aeizòon. Tale intrinseca qualità del Fuoco ci fornisce la chiave metafisica per comprendere l’intima ragione dell’obbligo delle Vestali di mantenere sempre acceso il Fuoco, sancito dalle XII Tavole:
« VIRGINESQUE. VESTALES. IN URBEM. CUSTODIUNTO. IGNEM. FOCI. PUBBLICI. SEMPITERNUM » (7).
Il Fuoco (ignis) di Vesta era infatti considerato dai Romani, per sua stessa natura, perpetuus, sempiternus, aeternus e pertanto la sua estinzione, che ne sospendeva quanto meno la manifestazione apparente e visibile, doveva necessariamente sembrare come un assentarsi, ancorché temporaneo, del Principio divino e protettore dell’Urbe. Donde lo sgomento che pubblicamente seguiva allo spegnersi del Fuoco e il potere disciplinare riservato al Pontefice Massimo nei confronti della vestale rea di trascuratezza, la quale, per suo ordine, poteva essere battuta con le verghe (cfr. Liv., XXVIII, 11).
5) ERACLITO, Frammenti, a cura di M. Marcovich, Firenze 1978, p. 190.
6) M. e J. STUTLEY, Dizionario dell’Induismo, Roma 1980, p. 73.
7) cit. da C. MAES, op. cit., p. 52.
Un’altra chiara indicazione circa la piena consapevolezza, da parte dei Romani, della scaturigine e quindi dell’essenza ultraterrena, eterna, del Fuoco di Vesta, ci viene nuovamente fornita da Plutarco a proposito del modo « solare » di riaccensione del Fuoco spento (l’altra modalità si attuava mediante lo sfregamento di legno di un albero fruttifero, arbor felix): « ove sia svanito il fuoco dicono che non conviene già ad altro fuoco riaccenderlo, ma farlo nuovo e recente col prenderne la fiamma pura ed incontaminata dal sole » (Numa, 9) (8). Ulteriore testimonianza, questa, della concezione « uranica » del Fuoco sacro.
Infine, rimane da soffermarsi un poco sulla dottrina della manifestazione ciclica del Principio igneo divino, enunciata da Eraclito con la perfetta immagine del « fuoco sempre-vivo, che di misura si accende e di misura di spegne ».
Per inquadrare meglio il tema riporto quanto ne scrive Ada Somigliana, autrice di un importante studio sul parallelismo tra il monismo indiano e quello greco nei frammenti di Eraclito: « in queste parole troviamo una chiara allusione ai ritmi cosmici, concetto tipicamente indiano. Come abbiamo già osservato, secondo il pensiero dell’India antica la creazione è una modificazione che si produce in Brahman, modificazione soltanto apparente perché l’Essere in sè è immutabile. Esso assorbe periodicamente il mondo, che passa così attraverso delle alternative di espansione (prapanca) e di ripiegamento day a), di creazione e di distruzione. Ciascuna di queste fasi si svolge secondo norme fisse nel tempo, e la palingenesi del mondo avviene sistematicamente ad ogni mahàyuga (grande periodo) quando esso rientra nel seno della divinità e vi rimane per la durata di una notte di Brahman, dopo la quale viene nuovamente emesso » (9). Come si nota, il parallelismo con la dottrina indiana evidenziato dalla Somigliana rende compiutamente conto sia dell’accendersi sia dello spegnersi del Fuoco, che corrispondono alle due fasi della pulsazione divina: dall’immanifesto al manifesto e quindi dal manifesto all’immanifesto; sia del fatto che questi spegnimenti ed accensioni non avvengono disordinatamente, a caso, bensì seguendo una precisa legge ciclica, secondo misura (métra).
8) Ibid., pp. 24-25. Giuliano Imperatore, il grande difensore della tradizione classica, scrisse in proposito: « Una fiamma che vien dal sole e non si deve mai estinguere, è conservata in Roma a turno nelle diverse ore dalle vergini sacre » (Degli Dèi e degli uomini, Bari 1932, pp. 55-56).
9) Ada Somagliana, Monismo indiano e monismo greco nei frammenti di Eraclito , Padova 1961, pag.91
Resta da chiarire come possa un fuoco sempiternus accendersi e spegnersi periodicamente, questione che sembra avere imbarazzato alcuni tra i più qualificati interpreti moderni del pensiero di Eraclito, per i quali l’ecpirosi (la risoluzione del cosmo in Fuoco) contrasterebbe « con l’idea centrale del sistema eracliteo, il Fuoco eternamente vivente » (10). Ritengo invece che alla luce di una corretta concezione metafisica, la dottrina dell’ecpirosi, lungi dal contraddire l’eternità essenziale del Fuoco, la ribadisce e la esalta. Basta infatti distinguere tra la modalità manifestata e quella non manifestata del Fuoco, ovvero del Principio divino, per concludere agevolmente che quando il cosmo manifestato, con l’ecpirosi, si risolve in Fuoco, è proprio questo ultimo l’unica realtà che, sia pure in modo ultramondano, sopravvive al cosmo e permane quindi in eterno. Quello che si spegne, quindi, è solo il Fuoco manifestato, senza che ciò attenti in modo alcuno alla permanenza, su di un altro piano, del Fuoco sempre vivo e sapiente.
La permanenza del Fuoco, nel quale si risolve il mondo, ma dal quale altresì nuovamente si costituisce, traspare chiaramente dalla testimonianza di Simplicio (De caelo 94, 4 Heiberg), secondo il quale « Eraclito afferma che il cosmo talora si risolve in Fuoco, talora di nuovo si ricostituisce dal Fuoco in determinati periodi di tempo, là dove dice ” che con misura si accende, con misura si spegne “. Di questa opinione furono in seguito anche gli stoici » (11).
Prima di passare alla considerazione degli aspetti metapolitici del culto del Fuoco, vorrei attirare l’attenzione su di un altro aspetto della dottrina di Eraclito, perchè esso ci offre una traccia importante per comprendere, nel suo significato più alil quale, appunto (B 25), « maggiori morti guadagnano maggiori sorti », essendo quest’ultime in definitiva riservate, secondo l’interna logica della visione di Eraclito, soltanto alle anime con- sustanziate di secco splendore, aughe xere, ovvero lux sicca, secondo la bella traduzione di Marsilio Ficino (de immort. animo- rum, VI, 2) (12). Anime, dunque, di Fuoco.
Per tali ragioni, ritengo, il Lare veniva venerato con il Fuoco (igne), come si ricava dal testo di un interdetto di Teodosio (Cod. Theod., XVI, 10, 12), nonché dall’Eneide (V, 743-745), laddove Virgilio descrive Enea che, per venerare il Lare e Vesta, ravviva la cenere ed i fuochi sopiti: « cinerem et sopitos suscitai ignis ». Forse la comune essenza ignea indusse ad effigiare Vesta tra i Lari, raffigurata come Fiamma ardente sull’altare (13), con la quale visibilmente si identificava: « nil aliud Vestam quam vivant intellege flammam » (Ov., Fasti, VI, 290).
Un rapporto altrettanto stretto collega Vesta ai Penati, al punto da costituire uno di essi. Ricorda Macrobio che Vesta rientra nel novero dei Penati, o quanto meno è ad essi compagna: « de numero Penatium aut certe comitem eorum », tanto che i consoli, i pretori ed i dittatori, nell’assumere la loro carica, compiono egualmente a Lavinio un sacrificio ai Penati ed a Vesta (Sat. Ili, 4, 11). A sua volta, Ovidio afferma che Vesta è venerata tra i Penati di Augusto: « Vestaque Caesareos inter sacrata Penates » (Met., 15, 864).
Vesta si trova dunque associata ad Entità religiose che, per i Romani, possiedono uno spiccato carattere patrio. Si è visto più sopra che i Lari sono i protettori delle contrade, dei campi, delle case, cose tutte pertinenti a quell’ager Romanus che costituisce la terra dei padri, ovvero, latinamente, la Patria. Come tali, Orazio (Carm. II, 18, 26) li chiama « dèi paterni », « paternos… deos ». Ma patrii sono anche i Penati, sotto il duplice profilo di Numi degli antenati e di divinità legate ai luoghi. Per questo Cicerone li considera patrios penates (Verr. 2, 4 e sgg8, 17). Se, tuttavia, erano patrii i Penati domestici, soprattutto lo erano i Penati pubblici, che, secondo l’èpos delle origini di Roma, si consideravano venuti da Troia a « rappresentare cioè la provenienza prima e remota della schiatta, qualcosa di intimamente connesso con la origine e la perpetuità sua » (14). Virgilio li menziona quindi come patriosque penatis (Aen., II, 717).
Nello stesso contesto epico anche il Fuoco di Vesta, che, come si è visto, è strettamente associato ai Penati, viene sottratto alla distruzione di Troia e salvato con essi.
La vicenda viene narrata in modo abbastanza misterioso da Virgilio (Aen, II, 270-297). Mentre i Greci, discesi dal cavallo di legno, ove si erano occultati, aprono, dopo avere massacrato le guardie, le porte di Troia alle schiere assedianti, Ettore, nelle tristi sembianze di quando fu atterrato da Achille, appare in sogno ad Enea. Dopo avergli annunciato l’ineluttabile caduta della città, lo invita ad allontanarsi, recando seco i Penati, per i quali, un giorno, innalzare, al di là del mare, nuove grandi mura: « Disse così: e sulle mani le bende e Vesta potente e il fuoco eterno fuori dei sacri recessi portava » (15).
Questo passo dell’Eneide è di grande importanza e merita una attenta considerazione. Ettore comunica con Enea in sogno, « in somnis » (II, 270), e poiché il sogno è chiaro, diretto e veritiero, esso rientra indubbiamente nella categoria dei sogni che gli antichi definivano oracolari. Scrive al riguardo Macrobio: « L’oracolo si manifesta quando un personaggio venerabile ed imponente, quale un padre, una madre, un ministro della religione, la divinità essa stessa, ci appare durante il sonno per istruirci su ciò che dobbiamo e non dobbiamo fare, su ciò che ci succederà o non ci succederà » (16). Innanzitutto, quindi, il fatidico messaggio di trasportare i Penati e Vesta da Troia alla futura città (Roma) viene annunciato ad Enea dallo spirito del massimo eroe troiano, Ettore, che Enea saluta come luce della Dardania, « lux Dardaniae » (II, 281) e speranza sicura dei Teucri, « spes… fidissima Teucrum » (ibid.).
10) R. LAURENTI, Eraclito, Roma-Bari 1974, p. 170.
11) Cit. da R. LAURENTI, op. cit., p. 172.
12) Ibid., p. 264.
13) A. DE MARCHI, Il culto privato di Roma antica, voi. I, Milano 1896, p. 68.
14) Ibid., p. 63.
15) VERG., Aeri., II, 296-297 (trad, di Rosa Calzecchi Onesti).
16) Trad, da MACROBIO, In somn. Scip., I, 3, 8.
fonte: Arthos, 1980
(segue…)