Protagonista in India
Conversazione con Miguel Serrano:
PROTAGONISTA IN INDIA
Tutto sarebbe più facile se Miguel Serrano credesse nella reincarnazione. Così, la sua esperienza in India potrebbe attribuirsi a meriti di vite anteriori. Vissute in India, ovviamente. Quella che segue è una conversazione tra un protagonista ed un osservatore non allucinato.
di Juan Manuel Vial
[ in El Mercurio 8 aprile del 2001 – traduzione a cura di Avatara®]
Non avevo più di tredici anni quando sentii per la prima volta di Miguel Serrano e delle sue avventure – “ricerca” egli dirà – per l’India. Lo ricordo bene perché l’idea mitica dell’India era già un’ossessione per me. Si parlava di questo cileno esotico che vestiva alla maniera indù. Stralci delle sue conversazioni arrivavano dalla sua ambasciata nel continente dell’incantesimo. Si sapeva della sua amicizia con Nehru, e specialmente con sua figlia, Indira Gandhi. Il clima di questi ed altri aneddoti – peregrini in quanto a che erano figli della diceria – arrivavano sempre carichi di ammirazione. Qualcuno diceva che Serrano, l’ex ambasciatore cileno in India, si era innamorato di Indira Gandhi. La diceria si accresceva col passare del tempo, tutto l’episodio viene chiarito nelle sue memorie. Così venni a sapere di Miguel Serrano per sentito dire. Anni dopo lo conobbi di persona e ho letto le sue opere sull’India. Rimasi impressionato da “Il Serpente del Paradiso”, e più tardi, col terzo volume delle sue memorie (“Missione nel Transhimalaya”). Ambedue, fecero si che il suo autore condividesse una posizione di onore con altri grandi delle mie letture sull’India; vicino a Sir Richard Francis Burton, vicino a Kipling.
Cinque mesi fa lo chiamai da Parigi per dirli che finalmente doveva partire. “Cerchi il Maharajá del Kashmir”, mi consigliò. “Gli dica che vada dalle mia parti. Tutto il mondo lo conosce, non gli sarà difficile trovarlo”. E pochi giorni sono riuscito a trovarlo. Per parlare dell’India. La sua – quella di un protagonista che la visse per nove anni – e la mia, quella di un modesto osservatore di passaggio, non allucinato. Smettiamo di salutarci mi disse tra risate: “Ora ha l’aspetto di un indù… “. Lo presi come il complimento che era, ed aggregò: “sì, e delle caste più alte.” |
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Il colore dell’India
Due annotazioni nel mio diario, del momento in cui sono arrivato, sono utili per illustrare l’ossessione indù per il colore della pelle. La prima nel treno ultrarapido tra Delhi e Calcutta (19 novembre): “Feci amicizia con Satirtha Ghosh, un entusiasta delle camminate per l’ Himalaya che sapeva abbastanza del Cile. Mi chiese della Terra del Fuoco e si guadagnò la mia simpatia. Disse anche che io non sembravo cileno, bensì inglese, e non volli scoraggiarlo informandolo che qui poteva sembrare così, ma non a Londra…”. Due giorni dopo a Darjeeling, La regina delle montagne: “Conversando con l’amichevole manager della teleferica, il più vecchio dell’India, disse di non sapere che in Cile la gente avesse per natura la carnagione chiara. A nulla valse la mia interruzione antirazzista, non la conclusi neppure, lui riprese subito la parola e disse di immaginare i cileni più simili agli indios”. Il brillante scrittore bengalese Nirad Chaudhuri in “Nel Continente di Circe” scrive: “Qualunque difetto gli indù antichi abbiano potuto possedere, questi non fu mai l’ipocrisia. Gli indù dei tempi scorsi, discendenti degli ariani, non mascheraravano mai il loro odio agli aborigeni, e non ebbero problemi nel proclamarlo. Erano abbastanza sinceri e proclamavano: “Ciò che è scuro è scuro e ciò che è chiaro è chiaro, e non ci dovrà mai essere la mescolanza”. E ancora: “Tutti gli indù moderni sono ossessionati dalla carnagione chiara, e non vedono alcuna bellezza in una persona che non sia bianca. Gli indù antichi erano liberi da questa inibizione. Questo è significativo”. Chaudhuri afferma che durante la sua esistenza in India “gli indù ariani sono sempre stati leali alle quattro cose importanti. In realtà hanno adorato in quattro differenti maniere, e questa lealtà è inerente al loro modo di vivere. Le cose in questione sono le Proibizioni, la costituzione razziale chiara, i fiumi e le vacche.”
Nei suoi libri Miguel Serrano scrisse anche sul complesso indiano del colore. Ed ora commenta: “Gli inglesi come colonizzatori furono un disastro. In Africa preferivano mettersi con gli struzzi che mettersi con una nera. Nei miei tempi in India l’ hotel “Cecil” della vecchia Delhi aveva un’insegna che proibiva l’entrata ai cani e agli indù. Immagini Lei che gli indiani, nella propria patria, permettevano tale aberrazione! Era perché erano brutalmente vilipesi. Lei che stette in Sikkim, e che vide quei principi orgogliosi di Sikkim, (solo in foto, ma avevano maestà), quando arrivavano a studiare ad Oxford gli inglesi cercavano di farli sentire inferiori. Senza andar più lontano, al White Club di Londra, in St.James Street, volle entrare il Maharajá di Jaipur e non glielo permisero. La regina alloggiava nel suo palazzo quando visitava l’India…Io vidi una partito di polo tra la squadra del Maharajá e quello del Duca di Windsor…Credo che gli indù comprendessero con una certa logica questa posizione inglese, perché è quella che essi avevano mantenuto prima di meticciarsi.
Mi incoraggia la prima frase della sua risposta. Gli inglesi, disastro come colonizzatori. Secondo Dickinson, i suoi compatrioti furono “tra tutte le nazioni la meno capace ad apprezzare le virtù della civiltà indiana, ed i più capaci di apprezzarne i difetti”. È anche il tono di una recente e definitiva ricerca, “India. A History”, significativamente scritta da un scozzese, John Keay. Lì si trova il caso di Thomas Babington Macaulay che, inviato in India agli inizi del secolo XIX come Law Member on the Governor-General’s Council, lottò con l’obiettivo, secondo le sue proprie parole, “di creare una classe di persone indiane in colore e sangue, ma inglesi in gusti, in opinioni, in morali ed in intelletto. Che possano essere interpreti fra noi ed i milioni che governiamo”. Più tardi aggiungeva: “Un solo scaffale di una biblioteca europea vale più che tutta la letteratura nativa dell’India ed Arabia”… Ripeto la citazione a Miguel Serrano – con la dolce premura di chi accusa -, e gli domando se conviene con me sul fatto che l’unica cosa buona che lasciarono gli inglesi in India fu la lingua che facilita enormemente la vita del viaggiatore. “E non solo quello” conclude. “Krishna Menon non parlava indù, ma un dialetto del sud. L’inglese gli permetteva di comunicare con milioni dei suoi compatrioti. Ora, riprendendo le sue osservazioni, posso raccontargli che Indira Gandhi mi domandò una volta: “Perché gli inglesi ci odiano”?, domanda che gli uscì dall’anima. Gli risposi: Per la semplice ragione che voi avete una tradizione che essi hanno perso, la vera tradizione ariana nella filosofia”. L’inglese non potè penetrare mai né la mente né il pensiero indiano. E si sentì scartato. L’impero inglese che giunge in India, quello dell’East India Company, non fu un imperium, ma fu un impero commerciale maneggiato da pirati.”
Reincarnazione, Jung ed allucinati
Miguel Serrano, il cileno protagonista in India. Tutto sarebbe più facile se egli credesse nella reincarnazione. Così, basterebbe dire che nella sua vita precedente era già Maharajá. O Swami, o magari Siddha. Come pochi occidentali, Serrano si collegò coi personaggi più rilevanti dell’India della sua epoca, in questi momenti la sua corrispondenza privata con la quale fu creata la sua storia è stata rivista per una pronta pubblicazione. Ricordo che un paio di anni fa assistetti alla presentazione di un libro sull’India nella Freer Gallery, facente parte della Smithsonian Institution, a Washington. Comprai un volume e mi misi nella fila in attesa dell’autografo dell’autore. Quando arrivò il mio turno gli dissi che venivo dal Cile, e che avevo un amico scrittore che sapeva molto dell’India. “Are you talking of Miguel Serrano”?, domandò subito, sorpreso. Sì, lo stesso che partì in India in una ricerca mistica. La sua fu una missione. Raccomandata dal suo Maestro. Fallì, perché i cinesi ostacolarono l’entrata al monte magico, il Kailás tibetano. Ma non completamente. “Oltre al mio anelito di trovare le città sotterranee dell’ Himalaya, i Siddha ashrams della conoscenza millenaria, ricercavo l’origine della mitologia e delle leggende dei nostri paesi della Patagonia, specialmente dei selk’nam della Terra del Fuoco.”
– È possibile per un occidentale credere e vivere nel concetto della reincarnazione?
– Benché diciamo di credere nella reincarnazione, nel profondo di noi stessi non vi crediamo, abbiamo una sola vita. Ed in questa vita si gioca tutto. O si perde tutto. Invece, se gli indù affermassero di non credere nella reincarnazione sarebbe una fallacia. Sta dentro il loro essere. Del resto, la forma in cui il concetto di reincarnazione si diffuse in occidente ha acquisito un senso pervertito. Quando Madame Blavatsky parlava della reincarnazione nel secolo XIX lo fece con un senso romanzesco. Per esempio si dice: “io fui Napoleone”; o “lei fu Poppea”. Nessuno si reincarna in mendicante! Tuttavia, l’idea della reincarnazione non è estranea all’ Occidente: i Catari ci credevano. Ma quale tipo di reincarnazione? L’idea che presenta Nietzsche quando parla dell’ “eterno ritorno” è una reincarnazione, ma di tipo differente. Buddha parla della reincarnazione, ma non parla mai dell’anima. Quando gli domandano sull’anima non dà risposta. Allora, che cosa è ciò che si reincarna? Può essere l’eterno ritorno.
– Quando il professore Jung ritornò dall’India gli domandarono della sua esperienza. Egli rispose che per lui l’India fu “una gran dissenteria”…
– A me furono consegnati i manoscritti originali descriventi la sua esperienza in India. Egli considerava l’indù un essere non individuale ma archetipico. Non esisteva un’avventura individuale. Ogni personaggio era un archetipo di qualcosa. Neruda mi parlava dei miei impiegati nell’ambasciata: “Qui non si può fare niente. Non posso invitare qui nessuno perché questi stanno a controllare tutto, scrutano in modo permanente”. Io gli risposi: “È certo, loro sanno tutto, ma “non lo usano”. Non è nella loro natura perdersi in queste piccole cose. Quando fu offerto a Jung un intervista col Maharichi, rispose: “no grazie… con il motivo di aver già visto Rama Krishna. Sono tutti uguali. Sono un archetipo”. Jung pensava pure che lo yoga fosse dannoso per l’ Occidente.
Lo scrittore cileno sa delle orde di occidentali che visitano l’India in ricerca di una conoscenza che per ignoranza ed atteggiamento non comprenderanno mai. A suo tempo presenziò ad esse. Gli cito il caso deplorevole di Krishnamurti (usato e alla fine distrutto) da chi lo conobbe. Commenta: “Krishnamurti si perse. Lo pescarono qui, in Occidente lo deformarono. La stessa cosa succede oggi al Dalai Lama. Li attira la cosa commerciale. Gli occidentali sono colpevoli di aver rovinato con la loro intrusiva presenza l’ordine antico della saggezza indù. Quei gruppi mistici sono tutti formati da persone mentalmente deboli. Diventano matti, ed uno continua a trovarci donne che recitano mantra per il giorno intero…E’ un assurdità”. La vera cosa incredibile è la devozione dell’indù verso le sue credenze. Lo descrive Serrano in “Il Serpente del Paradiso” quando visita il Kumbh Mehla di Allahabad: “Quattro milioni di esseri si sono riuniti nella città di Allahabad. Grandi torri di acciaio si alzano affinché da esse possa contemplarsi lo spettacolo ed anche per controllare quella marea umana. Qui, in mezzo a tutto questo, mi sento come una goccia, perso, spinto da un indefinibile sentimento di rispetto davanti a forze che fuggono in ogni direzione e che si mischiano, si uniscono: gli astri, la terra, l’acqua, l’anima. Continuo a camminare con difficoltà tra la folla, trascinato dalla sua onda. Arriva la processione dei ‘sadhu’. Avanzano nudi, coperti di ceneri, con visi imbrattati, di colore verde. Un enorme elefante porta su di se un capo o un “guru” L’elefante ha le zampe incatenate e va dondolandosi, cadenzato. Alza la sua proboscide e sbuffa. I capelli del ‘guru’ sono intrecciati in un chignon inverosimile, rosso, caffè, con zafferano ed escrementi. E’ completamente nudo. È il dio Shiva.”
Gli parlo del fatto che nel febbraio passato il Kumbh Mehla di Allahabad riunì trenta milioni di persone lavandosi nella “confluenza sacra” lo stesso giorno. Non si sorprende. Lo informo che non ci sono più elefanti. Furono aboliti perchè tanti pellegrini sono morti schiacciati. Decido di non raccontargli più di un’esperienza impressionante avvenuta nella capanna di un guru sadhu – fui oggetto di una trasmissione telepatica poderosa -, gli domando se egli crede che questi asceti saggi siano ancora capaci di maneggiare tecniche di conoscenza antichissime che se fossero male usate sarebbero terrificanti. Mi risponde abbassando la voce: “Chiaro, ancora esiste quel potere di comunicazione telepatica, oltre le parole. Fu sempre così e continua a esserlo. Nei libri indù antichi si arriva a dire che i “vimanas”, cioè i dischi volanti, erano maneggiati col pensiero. Il potere della mente che si perse.”
Miguel Serrano non ha più sogni con protagonisti gli stretti vicoli multicolori dell’India. A volte sogna persone, “con amici affettuosi, come fu Nehru, come fu Indira Gandhi”. Ma così strano: “Un mondo, come sommerso all’acqua, dove le cose succedono in un tempo differente, e dove nessuno si annoia, perché sono sommersi in un inconscio collettivo. L’uomo non vive completamente nel presente. Ha dietro di lui cinquemila vite ed altre cinquemila davanti; non c’è difficoltà. L’attrattiva è immensa, perché implica un abbandono momentaneo del nostro Io.”
Chi è stato in India l’ha amata o l’ha detestata. E se l’ ha amata – e l’ ha capita -, il ritornarci sarà benefico. Quando per me arriverà quel momento non avrò più pudori adolescenziali: la prima cosa che farò sarà richiamare il Maharajá del Kashmir. Per parlare della sua India e di quella di Miguel. L’India di una “ricerca interiore.”