Socializzazione e comunità. Articolo del 4 aprile 1944
Nel convegno internazionale di studi economici e sociali, tenutosi recentemente a Bad Salzbrunn, si è avuto modo di appurare le tendenze che, in questi specifici settori, affiorano in modo più o meno spiccato e sensibile nei diversi Stati, a seconda delle ideologie predominanti in ciascuno di essi: Belgio e Francia sono sindacalmente all’avanguardia, ed è proprio nell’organizzazione sindacale che esse vedono le possibilità concrete per un nuovo e migliore ordine sociale; la Svezia, come il Portogallo, punta invece sulla integrale e pratica applicazione dei concetti corporativi; la Germania va via via perfezionando ed affinando la propria costruzione della «comunità» — che nulla ha in comune con la «collettività» russo-bolscevica — e l’Italia ha portato all’esame degli studiosi la recente legge della «socializzazione».
Legge recente come nascita; ma che è lo sviluppo logico e consequenziale della teorica corporativa, estesa dal piano economico a quello sociale; in quanto la socializzazione pretende da tutti i lavoratori il massimo impegno e ripartisce su tutti un senso di maggiore responsabilità per conseguire un incessante aumento di produzione da « distribuire sempre meglio». A tal uopo si è già osservato che con la socializzazione, si tende a fare entrare i lavoratori nel vivo della produzione; sicché, rendendosi essi esatto conto delle sue varie necessità e delle possibilità reali, non agiranno più come fattori negativi ed ostili per esasperato senso di classismo, ma diverranno elementi consapevoli e coscienti nella determinazione dell’indirizzo politico-economico dello Stato.
Erano queste le mète perseguite anche dall’idea corporativa; ma esse non furono realizzate praticamente, in quanto la concessa parità giuridica del capitale e del lavoro non risolse la lotta secolare sempre esistente, ancorché latente, fra i due termini; perchè, da un lato, stava il lavoro semplicemente con i suoi riconosciuti diritti di associazione, mentre dall’altra parte era il capitale con tutte le sue prerogative, con tutte le possibilità le quali, ad un certo momento, potevano effettivamente avere il potere di imbrigliare lo Stato. Per fare si che effettivamente tutti i fattori produttivi giocassero il loro ruolo ai fini della parità, secondo le loro funzioni, i loro doveri ed i loro diritti, era necessario che la corporazione avesse la sua vita ed il suo perchè funzionante nella vita stessa dell’impresa. La socializzazione delle imprese significa quindi avere creato il sostrato, o meglio, l’elemento catalizzatore che mancava al corporativismo per il suo concreto divenire; significa far cooperare efficacemente i vari fattori produttivi nell’interesse si dei partecipanti alla vita dell’impresa, ma subordinandoli a quelli più alti della vita della Nazione. Cosi tanto il lavoro quanto il capitale, permeati dalla concezione della sovranità dello Stato e delle superiori esigenze di questo, non porteranno più in seno alle discussioni ed agli orientamenti i riflessi di particolaristici interessi. E, più propriamente, mentre il capitale viene eliminato, in quanto tale, da ogni rappresentanza sindacale (si veda appunto lo studiato progetto di riorganizzazione sindacale), il lavoro potrà adempiere la sua missione di costruzione di un ordine nuovo, attraverso la socializzazione assurgendo dai ranghi — per moto spontaneo sorvegliato a scopo di selezione dall’alto — alla direzione della vita sociale dando il definitivo indirizzo a tutta l’economia del Paese, secondo le necessità sue, in maniera da fare si che effettivamente l’economia serva alla collettività.
Avverrà cosi che si creerà per tutto il complesso economico-produttivo nazionale una vera e propria comunità d’interessi, per cui non sarà lecita la carenza di qualche settore, sia pure poco importante, ma che può sempre ferire ed incrinare il blocco del piano produttivo generale, redatto e diretto dai centro con la compartecipazione attiva di tutti gli elementi fattivi del lavoro, secondo ogni espressione gerarchica: intellettiva e manuale, direttiva ed esecutiva, tecnica ed amministrativa.
Ed in questa prassi si può concordare con il concetto germanico della «comunità produttiva» secondo la quale il fattore decisivo non è dato dal fatto di lavorare in una data azienda e di appartenere a questa, e quindi ad una determinata comunità aziendale, ma dal fatto di lavorare in un’azienda ed entro una comunità aziendale «per promuovere gli scopi aziendali e per il bene comune del popolo e dello Stato». E’ difatti la comunità nazionale che dà garanzia di lavoro e pane ai cittadini, non già l’impresa o l’azienda singola che, come tali, per se stesse non possono essere in grado di assicurare costantemente e per sempre lavoro all’individuo. Perciò stesso la Nazione può e deve esigere che i lavoratori si adoperino sempre là ove c’è bisogno dell’opera loro, sicché devono cadere gli impedimenti morali e materiali che tuttora legano il lavoratore all’azienda, nella quale lavora: ossia il timore di restare disoccupato; il pericolo di perdere, cambiando occupazione, le condizioni di lavoro superiori alla media vigenti in una data azienda; la speranza di vedersi assicurata dall’azienda stessa la propria posizione nel caso di malattia, infortunio, ecc.; gli speciali vantaggi che gli sono procacciati dalla rarità delle sue capacità. Tutti questi sono vincoli esteriori, che vengono meno con le circostanze determinanti, soprattutto quando un frequente cambiamento di rapporti di lavoro può rispondere addirittura ad un dovere nazionale. Secondo questo concetto il lavoratore finisce col sentirsi parte integrante del complesso economico produttivo della Nazione.
Ora, a noi sembra che anche la dottrina della socializzazione porterà sul terreno della prassi una equivalente realizzazione, poiché per essa il lavoratore si pone non solo al servizio della propria impresa, ma collabora alla gestione amministrativa della stessa e, a parte ogni possibilità di divenirne capo, assume perciò un’elevata responsabilità di fronte allo Stato.
Per altra via e con altri mezzi — forse meno meccanicistici, ma più umani e contemperanti dei valori dello spirito — l’Italia giunge alle stesse mète, che sono quelle del costante potenziamento della comunità nazionale e della sua autotutela intesa alla propria conservazione.
I complessi aziendali sono quindi gli strumenti che la socializzazione offre ai lavoratori perchè essi possano avvalersene ai fini nazionali. Secondo questi intendimenti la politica sociale deve, allora, abbandonare ogni carattere di legislazione caritativa per curare invece una riforma della struttura sociale del paese sulle basi della disciplina, della responsabilità e della capacità direttiva del lavoro. E non basta. Occorre, inoltre, che la politica sociale operi attraverso queste riforme per conferire una maggiore spiritualità all’individuo secondo il concetto: il lavoro per il lavoro, per la perpetuazione della stirpe e non il lavoro per il lucro e per il benessere personale e materiale che da esso si può ricavare.
Solo affidando alla politica sociale questi compiti è possibile attenuare la tendenza piuttosto diffusa al tornaconto individuale senza ledere l’incentivo ad operare. D’altra parte, solo con una rafforzata spiritualità dell’essere umano è possibile alla personalità conservarsi piena ed integra nelle necessarie forme collettive dell’organizzazione di massa. Se si potrà giungere alla effettiva direzione da parte del lavoro, in tutti i suoi ordini e gradi, della vita del paese, e se questo potrà accrescere quel processo di spiritualizzazione del lavoro stesso unitamente ad un senso di maggiore coesione sociale, la politica sociale potrà considerare di aver raggiunto pienamente gli scopi che si era prefissi. Al conseguimento di questa concreta politica sociale tende appunto — e lo si ribadisce ancora una volta — la «socializzazione della gestione delle imprese».
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