Paralleli. Mitologia nordica
Tratto dal volume “Mitologia nordica” di Luigi Lun forniamo questo spunto di riflessione.
ESCURSIONE TERZA
INCONTRI: CRISTO-ODINO; CRISTO-BALDUR
Quanto siano complesse ed intrecciate persino nell’estremo lembo settentrionale dell’Europa le questioni di natura mitologica e quanto sia spesso difficile, dal punto di vista scientifico, separare una sfera dall’altra, risulta chiaro nel parallelo che noi possiamo fare tra Cristo e Odino, rispettivamente tra Cristo e Baldur, nell’ambiente scandinavo dominato dal mito nordico ; vedremo quanto sia difficile distinguere fin dove arriva l’influsso cristiano da una parte e fin dove antiche tradizioni precristiane abbiano mantenuto il sopravvento anche dopo la conversione delle stirpi scandinave al Cristianesimo. È ovvio notare che punti comuni o rappresentazioni simili d’uno stesso concetto favorivano sia accettazione di una nuova ideologia sia la conservazione di un’antica credenza, magari in nuova veste, talvolta con nomi e termini solo leggermente trasformati o adattati, talvolta anche con totale sostituzione di un personaggio ad un altro.
Nella Havamal (strofa 138) leggiamo:
Veit ek, at ek hekk
vindga meidi à
naetr aliar nin
geiri undadr
ok gefinn Odin
sjalfr sjalfum mèr
à theim meidi
er mangi veit
hvers hann af rotum reun.
Sono parole di Odino: «So (pure) che io pendevo sull’albero battuto dal vento per ben nove notti, ferito dalla lancia e consacrato ad Odino, io stesso a me stesso; (pendevo) sull’albero di cui nessuno sa dalle radici di qual albero cresce (cioè : di che legno sia fatto»). L’albero così esplicitamente ma tuttavia sibillinamente descritto è la forca, il «legno battuto dal vento» che nelle tradizioni nordiche viene definito anche «il freddo cavallo del consorte di Signy (cioè di Hagbard») che corrisponde ottimamente alla semantica della frase tedesca den Galgen reiten «cavalcare sulla forca», e J. Grimm riferisce (nei Rechts-altertümer, pag. 42) che il condannato ad esser impiccato deve esser appeso in modo che «il vento batta sopra e sotto al corpo del giustiziando». Ma Odino è detto altrove semplicemente il «signore della forca» (galga grams) o addirittura «l’impiccato»; strana espressione a prima vista, ma corredatile di un parallelo: Cristo il «crocifisso». Basta in merito riferirsi al fatto che il termine crux è meno usato di patibulum, e questo è appunto la forca (ted. galgen). Specie su territorio anglosassone la voce patibulum viene glossata con gealga «forca»; dice anche Isidoro di Sevilla (Orig. 1,5) «patibulum vulgo turca dicitur quasi ferens caput ; suspensum enini et strangulatum haec exanimat», e Du Cange riporta un altro passo «habeant…. furcas seu patibulum super terram suam». La croce di Cristo vien detta patibulum o patibulum crucis, e per testimonianza ecco un passo di una predica di Leone (Germ. VI de pass, dom., cap. 4) «pendente in patibulo creatore», o il passo di un inno di G. Bonaventura «laus honor Cristo…. passo mortem pro populo in aspero patibulo» e la rispettiva traduzione olandese (del secolo quindicesimo) «in die versmade ghalghe»; altri passi in merito confermano il confronto linguistico di patibulum-galge-forca, come Venanzio Fortunatus (sesto secolo) nel famoso inno Vexilla regis prodeunt «crucis mysterium quo carne carnis couditor suspensus est pati-buio»; un anonimo dice invece «qui pendens in pa-tibulo clamans emisit spiritum»; solo Paolino da Nola (morto verso il 431) chiama crux la croce di Cristo e patibulum quella dei due malfattori.
Ci domandiamo: è stata la religione cristiana ad influenzare il mito nordico (come ritiene Brugge ed altri) oppure è stato applicato qualcosa di pagano all’ortodossia cristiana nel territorio nordico? Il giudizio è arduo e difficile, perché negare l’influsso cristiano sul mito scandinavo sarebbe assurdo; ma d’altra parte la somiglianza, in questo caso certamente non casuale, tra la croce di Cristo e la forca di Odino ha favorito potentemente la persistenza dell’antico mito. Vedremo che lo stesso fenomeno si avvera anche in parecchi altri parallelismi dello stesso episodio: Odino sul patibolo è geiri undadr «ferito colla lancia»; Cristo sulla croce «trafitto da una lancia»; Odino dice che egli «stesso si è sacrificato a sé stesso», e Cristo «dilexit nos et tradidit semet ipsum nobis oblationem et hostiam Deo in odorem suavitatis», e la rispettiva traduzione islandese dice «gaf sig sjalfan ut Gudi» in corrispondenza del «semet ipsum obtulit immaculatum Deo». Inoltre Odino pende dal patibolo per ben nove notti; Cristo muore verso l’ora nona; ad Uppsala si sacrificavano degli uomini per nove giorni di seguito.
Testimonianza eloquente della fusione avvenuta tra Cristo e il mito di Odino sono alcuni versi trascritti verso il 1865 su una delle isole Shetland:
Nine days he hang for ill wis da folk,
per de rütles tree; in’ güd wis he
«Per ben nove giorni stavo appeso all’albero che non ha radici; poiché cattiva vi era la gente, e buono era lui»: e
Nine lang nichts, hang he dare
i’ da nippin rime wi ‘his naeked limb
«Per nove notti nell’amaro freddo stava lì appeso colle membra nude». Linguisticamente molto importante l’allitterazione (Nine …. nichts …. nippin) che ci fa ammettere un’età molto lontana per la sua composizione, non trattandosi qui di un modus dicendi fossilizzato ma di un originale accorgimento poetico.
Non credo invece che si debba dare molta importanza al fatto che nella stessa Havamal (strofa 158) Odino dice: «Per tredicesima cosa so fare questo: se butto dell’acqua su un giovanotto, questi non cadrà pur andandoci al combattimento; non morirà per opera della spada»; perché non credo si tratti di allusione al battesimo, tanto meno che la Wasserweihe degli antichi germani è assai discutibile; ma nonostante ciò vorrei addurre un passo di Gregorio di Tours (11, 29) in merito alla morte del figlioletto di Clodoveo; dice ivi il padre : «Si in nomine deorum meorum puer fuisset dicatus, vixisset utique; mine autem, quia in nomine dei vestri baptizatus est, vivere omnino non potuit».
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Osserviamo ora alcuni tratti paralleli tra Cristo e Baldur.
Il mito nordico racconta che mentre gli dei provano l’invulnerabilità di Baldur, il cieco Hödur sta in disparte, inattivo, finché Loki gli porge il ramoscello di vischio con cui uccide il raggiante dio. Il medio evo raccontava di un soldato romano, cieco, di nome Longinus, che invitato dai circostanti prese una lancia e trafisse il Signore sulla croce. Già in documenti anglosassoni viene nominato questo Longinus (dice un passo latino: die mihi nomen illius militis qui punxit latus Domini nostri Jesu Christi? Dico tibi, Leorrius dictus est); una rappresentazione irlandese raffigura il soldato romano nel momento in cui ha compiuto il fatto e riacquistala vista. Una canzone danese stampata verso il 1732 narra presso a poco questo episodio:
Saa ledde de op den blinde Mand
de fik hannem Spyd i Haender
«Così fecero venire il cieco e gli dettero la lancia in mano» ; e ciò corrisponde al passo di un vangelo apocrifo: «Accipiens autem Longinus miles lanceam aperuit latus eius». Ora il racconto sul Longinus nel Vangelo non può esser stato influenzato, almeno nelle origini, dal mito di Baldur; bensì dovremo ammettere che il racconto medievale abbia potuto influenzare la tradizione nordica, e ciò tanto più in quanto nel poema «Crist» dell’inglese Cynewulf (del secolo ottavo) Cristo dice: «Ecco che venni affisso ad un alto albero ed inchiodato alla croce; e con una lancia fecero uscire il sangue dal mio lato facendolo gocciolare per terra». Notabile il fatto che il colpo di lancia non serve per assicurarsi della morte avvenuta, bensì per effettuare la morte del Salvatore, così come il ramoscello di vischio uccide Baldur. Si è sovrapposto un antico mito pagano all’ortodossia cristiana del Cynewulf?
Un particolare affiora pure: Baldur è invulnerabile perché nessuna cosa gli può più nuocere dopo le cure provvidenziali degli dei (più tardi vedremo Sigfrido invulnerabile perché fornito della pelle cornea su tutto il corpo meno un piccolo spazio tra le spalle; e ricordiamo in merito Achille e il suo famoso «tallone»); ma il cattivo Loki ha trovato la pianta dimenticata dagli dei, cioè il vischio «che non cresce né sulla terra né nel mare». Lo scritto ebraico Toledoth Jeschu racconta che Giuda vide che nessun legno si prestava per fare la croce per il Signore, e perciò consigliò di prendere il tronco del cavolo che cresceva nel giardino poiché a tutte le altre piante (così racconta questo scritto) era stato imposto di non prestarsi all’uopo. Stranamente ora trovasi diffusa nell’Inghilterra occidentale la credenza che il vischio sia stato prima una pianta grande e bella come gli altri alberi, e che solo dopoché si prestò a fornire il legno per la croce del Signore sia diventata una pianta parassita e piccola; e nella lingua tedesca troviamo, tra i molti nomi del viscum album anche Rreuzholz, cioè «legno della croce!».
Grande è l’importanza del sogno nell’epopea nibelungica (Crimilde sogna il futuro) e in molte fiabe e poesie tedesche, anche moderne; e già Baldur ha dei cattivi sogni che mettono in agguato gli dei. Una canzone danese evidentemente ha aggiunto questo tratto caratteristico alla passio Cristi:
Jeg haver dromt en Drom i nat
at Joderne ville mig domme
«Ho sognato stanotte un sogno (che diceva che) gli ebrei mi condanneranno»; la canzone è stata scritta probabilmente verso il 1732.
Ma ancora vari altri motivi caratteristici trovano il loro parallelo per Cristo e Baldur: Cristo scende nel limbo (ancora la «confessio» luterana dice: «credimus quod Christus tota persona, Deus et homo, post sepolturam ad inferos descenderit, Satanam devicerit, potestatem inferorum everterit et diabolo omnem vim et potentiam eripuerit….») e Baldur pure; ma già i greci raccontavano simili imprese da parte di Eracle ed Ulisse, i latini da parte di Enea e Claudio (Apocolocyntosis di Seneca), di Caco (presso Virgilio), di Anfiarao (presso Stazio); presso gli egiziani Amon Ra vince il drago dell’inferno e del male, presso i babilonesi è Ischtar che scende agli inferi (ma cfr. anche Nergal e l’epopea di Gilgamesch), nella cosmogonia dei mandei è Hibil che si accinge all’impresa, presso i manichei Mani e Ormuzd, presso gli ebrei Naboned (nella fantasia di Yesaia è il potente re di Babele) e così via; nel mito nordico è ben nota la discesa di Brunilde al regno dell’oltretomba. Nella poesia tedesca ecco un’opera giovanile di Goethe: Christi Höllenfahrt. Motivo questo comune a molte religioni e miti. Il poeta inglese Cynewulf già menzionato racconta nel «Crist» che Cristo lega il diavolo nell’inferno; anche Loki (forse un altro Lucifero?) viene legato dagli dei dopo l’uccisione di Baldur; anche il Vangelo di San Giovanni parla di Satana legato da forti catene per ben mille anni! Pure alla fantasia dei pittori medievali il Satana incatenato era tanto caro! Puramente accidentale giudico invece il parallelo tra il pianto di Maria e quello di Frigg, come pure il pianto della Natura sia per Cristo come per Baldur, tratto che riscontriamo anche nel lamento per la morte di Cesare in Ovidio e Virgilio. Significativo a proposito un passo della decima omelia di Gregorio Magno: «Sol cognovit, quia lucis suae radios abscondit; terra cognovit quia eo moriente contremuit ; saxa et parientes cognoverunt, quia tempore mortis eius scissa sunt; infernus agnovit quia hos quos tenebat mortuos reddidit; et tamen hunc quem Dominum omnia insensibilia dementa senserunt…. ». Del resto già Leone Magno aveva detto: «Pendente enim in patibulo creatore, universa creatura congemuit, et crucis elavos omnia simul dementa senserunt. Nihil ab ilio suplicio liberum fuit. Hoc in comunionem sui et terra traxit et coelum, hoc petras rupit, monumenta aperuit, interna reseravit et densarum horrore tenebrarum radios solis abscondit»… E una canzone popolare tedesca abbastanza antica dice a proposito della morte di Cristo:
Die feigenbaum die bogen sich,
die herten fels zerkloben sich,
die sonn verlor iren klaren schein,
die vogel liessen ir singen sein (Uhland, Volksl, 443).
Interessante ma scientificamente non importante, un passo dell’ inglese Andreas (verso 547 dell’ediz. Grein) che chiama Cristo theoda bealdor «principe dei popoli», e collega così il nome di Baldur (per cui cfr. l’anglosassone bealdor «signore») colla radice germanica bald «coraggioso», tanto diffusa nell’onomastica nordica e di là penetrato anche nelle lingue romanze e slave (cfr. nomi come Archibald, Baitimo — Baudouin, Theobald, Humboldt, Valdemar, Baldulfo, Baldegunde, Baldhilde ecc.). Considerando quindi oggettivamente i paralleli addotti, non ammetteremo una diretta influenza, o come vorrebbe il Brugge, l’origine del mito di Baldur dai racconti medievali (e non sempre ortodossi) di Cristo, specie della sua «passio», ma talvolta un sovrapporsi, talvolta un interferirsi delle due grandi tradizioni, cristiana l’una e nordica l’altra. Occorre però tener presente che un tratto caratteristicamente odinico si protrae per le leggende eroiche: il lancio della spada quale segno di futura morte. Racconta la Yngliga saga: Odino stava per morire in Svezia; e sentendo avvicinarsi la morte si fece «segnare» colla punta della lancia; così si mise a capo di tutti gli uomini morti e morituri in battaglia; poi disse che si recava a Godheim, cioè «la dimora degli dei» per ricevere ivi i suoi amici. Sigfrido è colpito a morte dalla lancia di Hageu, personaggio odinico; e Volker, prima di fare strage tra gli unni, vibra la sua lancia sopra le loro teste, odinico anche lui. Sia la Gautreks saga come Saxo (nel VI libro) raccontano la fine di Vikar per ordine di Grani che è Odino stesso; anche Vikar vien legato ad un albero e poi trafitto da una canna palustre che ha effetto di lancia. Così Odino è il «dio degli impiccati», e conversa talvolta con loro. Ma l’usanza di fare sacrifici umani ad Odino impiccando le vittime, sembra comune a tutti i popoli nordici, ai vikinghi, ai frisoni, ai cimbri, goti ecc.; così Adamo di Brema (I, IV, cap. 27) racconta: «Ex omni animante, quod masculinum est, novem capita offerentur, quorum sanguine deos placari mos est. Corpora autem sol spenduntur in lucum, qui proximus est tempio …. ibi etiam canes et equi pendent cum hominibus»… Racconti del genere forniscono Surius (III, 374) nella Vita San Vulfranni: «alios patibulo appendens» e Procopio nella guerra gotica : «… ma la vittima più bella di tutte è per loro il primo uomo che fanno prigioniero in guerra ; questo lo sacrificano ad Ares… non uccidendolo semplicemente, bensì impiccandolo ad una forca di legno…». Anche il re svedese Eirikr ha da Odino una canna palustre che getta sopra l’esercito avversario dicendo «voi appartenete (cioè siete sacrificati) tutti ad Odino!». Anche la lotta tra gli asi e i vani incominciò col lancio del giavellotto (da parte di Odino) sopra i nemici. La lancia della morte è simbolo di Odino come la hasta latina simbolo di Marte; infatti il fetialis gettava una lancia colla punta di ferro o addirittura macchiata di sangue al di là del confine quando dichiarava la guerra. Anche nell’epoca medievale ritorna un gesto (ormai incompreso) di questo genere: la «Historia della reina d’Oriente» scritta verso la fine del secolo quattordicesimo dal fiorentino Antonio Pucci: racconta tra l’altro che la regina, in grave pensiero al cospetto del nemico, vide arrivarsi un agnello (sic!) che le disse: «Prendi questa bacchetta e gettala tra i tuoi nemici e dì: sparite come il fumo davanti al vento così vincerai!». E in realtà ciò fatto i nemici fuggirono. Se qui la figura dell’agnello indica ormai tradizione cristiana, il lancio della canna-giavellotto a sua volta, indicherebbe provenienza nordica dell’episodio.