Bomarzo, il Giardino delle Meraviglie
Già in uno dei precedenti portali avevamo accennato a Bomarzo, oggi approfondiamo e completiamo.
Foto di M.L.
Il piccolo centro di Bomarzo è situato su un rilievo collinare lungo la valle del Tevere. La Polimartium romana è documentata solo nel periodo tardoantico, ma la località è sicuramente frequentata fin dal periodo etrusco arcaico. Antica sede vescovile, poi riunita a quella di Viterbo e infine di Bagnoregio, ai margini orientali della Tuscia, nel primo Medioevo Bomarzo rientra nel ducato bizantino, poi longobardo. E compresa nelle donazioni di Carlo Magno al papa (774), dunque nella prima costituzione dello Stato della Chiesa. La sua storia successiva partecipa dei secolari contrasti e alleanze tra le più grandi famiglie romane e tra di esse e l’autorità pontifìcia, che alternamente le infeudava e dotava di terre e castelli o ne combatteva il potere locale.
L’emergenza architettonica più notevole del paese è il massiccio complesso di Palazzo Orsini; la Villa delle Meraviglie o Bosco Sacro (più generalmente nota come Parco dei Mostri) che fa capo alla residenza nobiliare, dista tuttavia circa un chilometro e mezzo dall’abitato
I dati certi a disposizione sulla genesi di questo unicum nel panorama dei giardini storici italiani sono davvero esigui. Nel 1552 il trentenne Vicino Orsini, uomo d’armi e letterato, dopo valente servizio nell’esercito pontificio si ritira a vivere nella natia Bo marzo. Al suo ritorno la trasformazione del castello medievale degli Orsini in palazzo era in corso già da molti anni (si concluderà solo nel 1583, in parte a opera del Vignola). Il principe Vicino convola a nozze con una Giulia Farnese e si dedica all’ideazione e realizzazione della sua eccentrica opera («sol per sfogare il core», recita una delle tante epigrafi del parco), probabilmente fin oltre il 1580. L’unica notizia contemporanea alla villa è contenuta in una lettera del vasto epistolario di Annibal Caro allo stesso Vicino Orsini del 1564, dove il letterato menziona i «teatri e mausolei» di Bomarzo, senza riferimenti diretti all’impressionante statuaria di creature fantastiche e mitologiche, di mostri esotici e grotteschi. Nella storia degli studi (e delle fantasticherie) i nomi più ricorrenti come probabili ispiratori, consulenti o addirittura “designer” della villa sono quelli del Vignola, progettista dal 1566 del complesso degli edifici, del giardino all’italiana e del parco di Villa Lante a Bagnaia, ad appena una dozzina di chilometri di distanza (Vignola è architetto dei Farnese dal 1550), e di Pirro Ligorio, estroso architetto, archeologo, pittore e antiquario falsario; molto legato alla famiglia Orsini, Ligorio nel 1550-72 fa realizzare la Villa d’Este a Tivoli, un altro capolavoro manierista. Ma tutti i generi di fonti disponibili, come detto, fino a oggi non hanno fornito alcuna certezza in merito ai collaboratori — se ve ne furono — dell’Orsini.
Nel 1645 la proprietà passa alla famiglia della Ro vere, nel 1845 a quella Borghese. Nei secoli, il luogo colpisce l’immaginazione di singoli viaggiatori senza mai assurgere, però, a grande fama né meritare cure almeno di mantenimento. Come “selvaggio” concentrato d’arte surreale, tra gli altri, intriga Salvador Dall’, qui in visita nel 1938, che vi s’ispira per una delle sue tele. La prima presa di posizione di rilievo per il recupero di questo singolare bene culturale dallo stato di totale abbandono è di Mario Praz, nel 1949. Nel 1954 la zona è acquisita da Giovanni Bettini, un agricoltore che si adopera per farla “fruttare”. Prima dell’apertura al pubblico compie una serie di interventi: soppressione di una parte del muro che cingeva l’intero giardino, costruzione di un nuovo portale di accesso medievalisticamente merlato e ricollocazione di alcuni elementi scultorei (obelischi, erme, sfingi). Nel 1955 un gruppo di architetti – Bruschi, Portoghesi, Fa-solo e Lander — affronta il primo studio “scientifico” della villa, conducendo una campagna di rilievi dell’intero complesso. All’inizio degli anni Ottanta ha luogo un’altra rilevante campagna di studio, con scavi, a opera di Horst Bredekamp e Wolfram Janzer, che producono una voluminosa monografia in merito. Nel 1983 il figlio di Bettini, subentrato nella gestione, pensa bene di “modernizzare” il luogo per meglio inserirlo nel circuito turistico.
Oltre all’allestimento di un’ampia area attrezzata preliminare alla villa, includente parcheggio, servizi igienici, ristorazione, zona giochi e pic-nic, un piccolo zoo e altro, s’interviene con decisione all’interno, operando l’alterazione sostanziale di alcuni elementi originari, in pratica per la prima volta da quando la villa venne creata.
Nei tracciati interni del giardino vi sono state aggiunte (nuovi accessi tra un livello e l’altro) e modifiche per “fluidificare” un’affluenza turistica massiccia (che puntualmente si verifica, specie nei week-end della bella stagione); tutto il percorso è stato staccionato e alcune zone, come la Platea della Tartaruga, non sono accessibili per il rischio di incidenti. Infine, elemento non secondario trattandosi di una villa storica, la vegetazione arborea spontanea della zona (costituita per lo più da specie centenarie come robinie, false acacie, carpini) è stata integrata con una gran quantità di pruni (una specie originaria del Caucaso che giunge in Europa non prima del 1880), fogliame porpora e spettacolare fioritura rosa; uguale introduzione di piante “aliene” per lo strato arbustivo, a scapito del sottobosco autoctono.
Molti hanno deprecato e deprecano una trasformazione, forse definitiva, del luogo da Sacro Bosco a Parco dei Mostri, con la conseguente mortificazione della sua singolarità spirituale e integrità storica, manipolate a fini esclusivamente commercial-ricreativi (effetto Disneyland, insomma). D’altra parte era davvero difficile che nel corso della modernità la Villa di Bomarzo riuscisse indefinitamente a sfruttare quelle circostanze che per secoli l’hanno salvaguardata: nascere dentro un solido bosco e non come fragile giardino, l’essere la sua statuaria più significativa massicciamente intagliata nella roccia madre – un tempo policroma, il suo aspetto odierno è quello che ne hanno fatto il trascorrere del tempo, sole e piogge e, specie nelle zone più umide e ombrose, muschi e licheni – e soprattutto il disinteresse secolare ad alterarne i caratteri per intervenuti mutamenti di gusto o di destinazione d’uso, in un’area prettamente rurale, senza fenomeni d’industrializzazione, a lungo periferica anche in termini di istanze e fermenti culturali.
Ai fini di comprendere l’originalità di questo luogo è opportuno passarne in rassegna gli episodi scultoreo-architettonici più rilevanti.
L’entrata primitiva era in corrispondenza della Casa Pendente (nel 1997 i suoi paramenti esterni sono stati mutati dal color ocra al bianco), una palazzina inclinata che sembra sprofondare nelle sue stesse fondamenta: entrarvi procura subito un senso di vertigine, degna introduzione a questo piccolo mondo, se non alla rovescia, di certo in continuo bilico tra ragione e follia.
Qui erano le due Sfingi sui piedistalli delle quali campeggiano le prime iscrizioni: «Chi con ciglia inarcate/ et labra strette/ non va per questo loco/ manco ammira/ le famose del mondo/ moli sette»; e ancora «Tu ch’entri qua pon mente/ parte a parte/ e dimmi poi se tante/ maraviglie/ sien fatte per inganno/ o pur per arte».
Nei livelli inferiori della villa spiccano i due Giganti — il più possente è serenamente intento a smembrare l’avversario — e il gruppo della Platea della Tartaruga: la grande tartaruga con una figura femminile sul dorso si accompagna all’obliqua fontana del Pegaso e al Mostro marino affiorante dalla roccia con le fauci spalancate.
Salendo dalla Casa Pendente ci si ritrova nella Platea dei Vasi, uno spiazzo dominato dalla grande fontana del Nettuno (personificazione di fiume) che fronteggia la figura femminile canefora (Anfitrite o Cerere). Nelle vicinanze del Nettuno, un’altra testa di Mostro marino-delfino, poi l’abbondante Ninfa dormiente, altrimenti nota come «la bella addormentata nel bosco». A monte l’espressivo Drago assalito da un leone e da un cane, seguito dall’Elefante con torretta da guerra che stritola nella sua proboscide un guerriero-legionario romano. Ancora più sopra, al culmine di una gradinata, il mascherone Orco, attraverso la cui bocca si penetra in una suggestiva stanzetta con tavolo e sedie di pietra. Sul declivio laterale, tra altre sculture, troviamo il sedile di pietra a nicchia (o panca etrusca) sulla cui parete interna si legge: «Voi che pel mondo gite errando, vaghi/ di vedere maraviglie alte e stupende/ venite qua, dove son faccie horrende,/ elefanti, leoni, orsi, orchi et draghi».
Il cosiddetto Xisto è un piazzale con belvedere arredato da enormi vasi, pigne e ghiande decorative; in fondo, Orsi araldici che reggono una rosa, oltre i quali si trovano due Sirene (una alata, l’altra bicaudata) con i terminali a sedile. Al culmine della villa, in bell’isolamento, è situato l’elegante Tempietto tetrastilo in antis, che si vuole dedicato dal principe alla moglie morta anzitempo. Al margine del recinto, il viale termina con un’altra orrifica maschera di demone con la bocca spalancata, sormontata da un globo con castello araldico.
Altri ancora e in gran numero sono gli abitatori dei “gironi” del giardino: Fauno, Giano bifronte, Ecate trifronte, Cerbero, ninfe, putti, animali e oggetti più o meno fantastici.
Le carenze documentarie e il carattere particolarissimo del luogo hanno contribuito, ovviamente, ad alimentare nel tempo fantasie e leggende. Ad esempio che il principe Orsini facesse eseguire le opere più “diaboliche” ai Turchi ottomani fatti prigionieri in battaglia, sotto le mura di Vienna o addirittura sulle galeotte di Lepanto. Oppure che proibisse l’accesso alla moglie Giulia fino al termine della costruzione, e per il disvelamento scegliesse una notte buia e tempestosa, terrificando con le sue folli creazioni la consorte e provocandole un fatale attacco di cuore; e da allora, con la mente sconvolta per la tragedia, trascorresse i giorni e le notti in evocazioni sataniche e sfrenatezze sessuali.
Anche l’immaginazione erudita, specie quella degli studiosi più inclini all’esoterismo, ha avuto modo di sbizzarrirsi nei tentativi di decrittare le forme e i simboli di questa Wunderkammer a cielo aperto: spazio naturale trasformato in teatro dello straordinario articolando un vasto scibile mitologico, antiquario, neoplatonico e quant’altro pertinente alla cultura tardorinascimentale. Resta il dilemma: accumulazione di “capricci intelligenti” di uno spirito bizzarro, oppure complesso itinerario filosofico-iniziatico elaborato da un genio misconosciuto? «Cedan Memphi/ e quant’altra meraviglia/ ch’ebbe già il mondo/ in pregio al Sacro Bosco/ che sol a se stesso e a null’altro assomiglia», scrive o fa scrivere il principe in un’altra delle iscrizioni sopravvissute.
Una delle più forti suggestioni intellettuali vede il bosco di Bomarzo come labirinto manierista, labirinto concettuale. La figura del labirinto non appare mai nella villa, ma vi è sottesa nel senso dell’intricato e ingannevole percorso sapienziale. Leggiamo al proposito un brano di Gustav René Hocke: «Questo trucco o giuoco di mano, che vuole provocare stupore è determinato da un qualche cosa di più forte che non la manifesta tendenza all’effetto, alla maniera dei prestigiatori: si vuole che la natura contrastante dei fenomeni sia superata nell’esperienza dello spavento stupito. […] In questo mondo, che non è superiore al mondo consueto ma diverso da esso e popolato di fantasmi schizofrenici […] si uniscono la magia, una mistica secolarizzata, lo «spleen» e il «dandismo», per non menzionare l’erotismo introvertito. I contadini del luogo considerarono per secoli quel parco come un paesaggio diabolico di orge erotiche. C’è, inoltre, l’indubbia intenzione di racchiudere l’incomprensibile in formule visive. […] Bomarzo è un concentrato manieristico dell’Europa. […] Ma cosa accadrebbe, se si volesse conoscerne, oltre che la struttura geografica, anche quella architettonica? Non c’è alcun dubbio: esso è un labirinto, un labirinto anamorfotico» (cfr. Santarcangeli P. 1984, pp. 200-201).
Anamorfotico, ovvero ottenuto mediante una deformazione prospettica: ricavarne una visione corretta, comprensibile, è possibile solo trovando un particolare e speciale punto di vista. In questo caso, il “topiario” — colui che, nel lessico del tempo, dava forma acconcia alle siepi, che ricavava figure e percorsi nella vegetazione dei giardini — a quanto pare non ha lasciato il codice della sua creazione; che Vicino Orsini sia stato il topiario di se stesso, o meno?
Tutte le ipotesi interpretative, specie quelle che ambiscono a individuare un programma iconologico organico, devono comunque fare i conti con la realtà fisica del luogo. La configurazione spaziale che si attaglia senza ombra di dubbio e possibilità di contestazione a Bomarzo è presto detta: si tratta di un anfiteatro di origine vulcanica, i cui terrazzamenti non hanno subito nette imposizioni ingegneristico-geometriche, ma hanno permesso, data la loro conformazione, l’elaborata e spesso probabilmente “intuitiva” lavorazione di una gran quantità di peperino (tipo di tufo grigio chiaro con una caratteristica picchiettatura nera simile, appunto, a grani di pepe).
Altrettanto certo è che a Bomarzo ci si trovi in presenza di una situazione artistica eccentrica, forse anche marginale, ma non per questo aliena sia al percorso culturale della sua epoca sia al complesso storico-territoriale del Lazio nord-orientale, che del giardino cinquecentesco ospita alcune delle espressioni più canoniche e celebri.
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