Soldati del Lavoro (seconda e ultima parte)

Dalla nostra emeroteca la seconda parte di un ottimo articolo, questa apparsa sul numero di giugno 2001 di Storia del Novecento

Prima parte: SOLDATI DEL LAVORO I volontari italiani sul “Fronte del Lavoro ” tedesco (1939-1943).

2a Parte

Un “lager” (campo residenziale) per i volontari italiani in Germania. La costruzione è precedente all’anno 1941 [ cliccare l’immagine per ingrandire ]

Operai in camicia nera, I volontari italiani del “Fronte del Lavoro” in Germania.

Se in una limpida giornata del giugno 1939 (a un mese dalla stipula del Patto d’Acciaio tra Roma e Berlino) avessimo deciso di fare una visita ai lavoratori italiani volontari in Germania, per esempio agli alloggiamenti rurali della Sassonia, ad accoglierci avremmo trovato i fiduciari del campo italiani e tedeschi, l’interprete, il medico e i patrioti in coro. E avremmo vissuto l’esperienza di essere per un momento ancora in un angolo d’Italia in terra straniera. Le foto d’epoca qui a lato testimoniano, più d’ogni altra parola, di un tenore di vita sorridente, non oleografico, non propagandistico, ma documentano un vivere – sebbene da emigrati – agevole e di rapporti camerateschi ancorché speciali e in tempi di economia di guerra. Con ..questi termini, “economia di guerra”, si deve includere naturalmente la piena condivisione di quei sacrifici che il popolo italiano e quello alleato germanico erano tenuti a fare per il conseguimento della vittoria. Tempi duri. Così, in seguito alla prima parte dell’articolo “Soldati del lavoro”, apparso su “Storia del Novecento” dell’aprile scorso, ora ci corre l’obbligo di centrare il tiro, per così dire, e integrare a quanto già scritto ulteriori particolari.

Lettere ai familiari

Estate al campo. Pausa mensa per i nostri lavoratori in Germania. Per loro una bella occasione per familiarizzare cameratescamente. [ cliccare sull’immagine per ingrandire ]

Su Dresda fiocca fitto fitto nevischio gelido. A fine turno lavorativo un giovanotto fuma e sorseggia quel poco vino di Manduria che gli rimane. Intanto pensa ai genitori lontani perché la nostalgia è un batticuore greve che nessuno può tener distante dal petto. “Miei carissimi, qui il lavoro si svolge nelle migliori condizioni, e il tempo passa presto”. “Mentre scrivo” – altra lettera di uno di quegli italiani in Germania – “aspetto che si abbrustoliscano le fette di pan nero messe sulla stufa, per poi spalmarle di burro alla moda dei crucchi. Siccome quassù fa ancora freddo, la sera ci raccogliamo intorno alla stufa della nostra piccola baracca. Siamo in 14 ed ognuno ha quello che gli serve. Dunque state tranquilli”.

Sono alcune lettere che gli emigrati inviavano ai loro cari in Patria e pubblicate da “Il Secolo-La Sera” di Milano, non differentemente da altre pubblicazioni che così reclamizzavano l’opzione lavorativa per il Reich. La proposta era ben allettante, particolarmente ghiotta per larghe fasce di disoccupati e – è probabile – anche per qualche opportunista. “Anche le vostre famiglie potranno seguirvi in Germania” titolavano i giornali italiani, prospettando per i senzalavoro nuova vita in terra teutonica. Considerato che tutti i tedeschi abili alle armi erano al fronte o nelle caserme, considerato che più della metà della popolazione tedesca era di sesso femminile, appare evidente la vitale necessità del Reich di manodopera  maschile  per  le miniere, i lavori pesanti nei campi e nelle officine. Le donne tedesche ed anche i ragazzi già grandini, tutti erano occupati in qualche attività produttiva o extrascolastica o “part-time”. La Germania di quegli anni titanici era un fascio di forze tutte tese alla sopravvivenza, tutti i cittadini fortemente motivati.

Si parte per la Germania

Lo sberluccichio dei raggi del sole cadeva sulle rotaie della stazione di Brescia e tutto contribuiva al fervore del contingente pronto a salire sul treno per il Brennero. E un giorno importante: si va a lavorare finalmente! La banda intonava l’Inno d’Italia. Qualcuno è commosso. I primi volontari partirono nella radiosa primavera del ’38. Il 17° Battaglione Volontari del Lavoro di Brescia partì cantando: “Inquadrati per l’Onore/in serrati battaglioni/forti braccia, saldo il cuore/ riprendiam su la marcia/sventolando fedelmente il vessillo tricolore/Vìva l’Italiai Viva la Germania!”.

I convogli ferroviari si formavano in tutte le città italiane, specialmente settentrionali, ma consistenti gruppi provenivano da Benevento, Bari, Catanzaro, Potenza, Salerno, Caltanissetta, Taranto, Macerata, L’Aquila, Rieti, Foggia. Alla fine del 1938 i volontari italiani occupati nel solo distretto berlinese erano 2.312, 24.423 alla fine del 1941. In tutto il Reich erano 216.834 (operai, edili e minatori) nel settembre ’41, 170.575 nell’ottobre del ’42 e 190.000 (operai e contadini) all’inizio del ’43.

Questo per quanto è relativo alla consistenza numerica del fenomeno migratorio. Per ciò che concerne l’analisi complessa della storia in generale, si dovrebbero chiarire delle discriminanti temporali, decidere quindi periodi di valutazione. Un primo arco di tempo va dall’entusiasmo iniziale per l’opzione all’impatto con la realtà, un secondo tratto lo vediamo fino all’8 settembre  1943, l’ultimo è compreso da questa data fatale al crollo della RSI e del III Reich, l’epilogo dell’avventura di questi “soldati del lavoro”, la prigionia, il rimpatrio.

Goslar-Harz, 1940. Volontari italiani del “Fronte del Lavoro” ai servizi igienici annessi ad uno dei “lager” in Bassa Sassonia. [ cliccare sull’immagine per ingrandire ]

Con impeto d’orgoglio nazionale – e su questo niente ci piove – il Duce ha fornito ai soldati del lavoro in partenza per la Germania uno sbocco occupazionale, un ruolo, una divisa: camicie nere e giubba azzurra, pantaloni grigio-verdi pesanti, il distintivo coniato per l’occasione rappresentante il Fascio e la Svastica. Invero da qualche parte della penisola giunsero a destinazione gruppi di operai in condizioni d’indigenza inammissibile, ma già passati per le visite sanitarie obbligatorie: sani e robusti. Su questi difetti che diremmo fisiologici di un’organizzazione ciclopica, evasa in tempi ristretti (tempo 9-10 giorni) la pubblicistica politicamente corretta lievita, prigioniera di rancori e pregiudizi. Mussolini pretese che ai volontari italiani fosse riservato un trattamento consono alla condizione di alleato. Quando nel 1942 Himmler redasse la circolare “Misure di difesa contro il pericolo d’impiego dei lavoratori stranieri”, e differenziava i tipi di trattamento da fornire ai volontari (ricordiamo: polacchi, bulgari, slavi, spagnoli, francesi, rumeni, croati, cecoslovacchi, ungheresi, fiamminghi, portoghesi e scandinavi) gli italiani vennero inclusi nel primo gruppo A, onde “si tenga conto della comune battaglia che viene condotta da Berlino e Roma. Himmler.” Tuttavia, già dal 1940 – se non prima – lo standard assicurato ai volontari italiani assumeva proporzioni tali da come le avremo potute rilevare nel corso della nostra (immaginaria) visita al campo sassone che dicevamo in principio, e cioè: 600 grammi di pane al giorno (contro i 340 per gli slavi del gruppo B, compresi spagnoli, greci, francesi); carne cinque volte alla settimana compreso il wurstel giornaliero; formaggio 225 grammi al giorno; burro 140 grammi; 200 grammi di riso o pasta. La colazione del mattino  consisteva  in  mezzo litro di latte a persona, misto surrogato di caffè o talora caffè puro. Tabacco e liquori a prezzi di spaccio. Per il vitto e l’alloggio i volontari pagavano un marco e 20 pfennig, il resto era sborsato dalla ditta presso la quale lavoravano. Inevitabilmente la situazione cambiò dopo l’8 settembre ’43. Nei territori della Repubblica Sociale Italiana, le loro genti conobbero febbrili giorni d’attesa. Nello smarrimento della notte che seguì quell’8 settembre ’43 i fuochi della speranza rischiaravano ancora l’orizzonte. Ma si doveva salvare il salvabile. Per l’Onore e per la vita. Durante la RSI la reclame per l’opzione lavorativa in Germania non cessa, come non deve cessare la produzione d’acciaio, come non cessa la fame di carbone, l’urgenza di proiettili, aerei, cannoni.

Manifesto propagandistico del “Lavoro e combattimento al servizio dell’Italia”. Alla fine del 1938 i volontari italiani occupati nel solo distretto berlinese erano 2.312 che raggiunsero le 24.423 unità alla fine del 1941. [ cliccare per ingrandire ]

Il periodico di Milano “La Sveglia” pubblicava con regolarità inserzioni pubblicitarie di lavoro oltralpe, accompagnandole con reportages invitanti: “Gli operai italiani in Germania hanno sempre diritto alle stesse razioni alimentari fissate per la popolazione, con adeguati supplementi per gli addetti ai lavori disagiati”. Così si poteva leggere nei bandi di raccolta volontari. Sempre per la RSI, un altro centro editoriale attivo su questo fronte per il lavoro in Germania era il Centro Erre di Venezia, che editava opuscoli informativi “ad hoc”. Uno era intitolato “Ogni operaio un soldato”. E aggiungeva: “Lontani dalla Patria il vostro sarà un duro lavoro, ma sarà coronato dalla vittoria!”. A Pavia, poi, in via Damiano Chiesa 7, aveva sede l’Arbeitseinsatzsab, un ufficio per il reclutamento di soldati-operai collegato al Ministero del Lavoro del Reich. Tale ufficio forniva ai volontari un premio di 5.000 lire che devolveva ai congiunti rimasti in Italia, così suddivise: 2.000 lire all’atto di partenza, e nei primi tre mesi 500 lire alla moglie e 210 lire ogni figlio, a entrambi i genitori 750 lire, e poco meno al singolo genitore. Verso la fine gli ingaggi risultarono sempre più difficili.

Ormai gli aerei anglo-americani lasciavano cadere quotidianamente sulla Germania un tonnellaggio di bombe che cancellano dalle carte geografiche interi quartieri, interi paesi. E una apocalittica pioggia di ferro e fuoco. Milioni’i morti e i feriti. Tra il fuoco incrociato di alleati e sovietici, nell’evacuazione delle città della Prussia orientale su navi ospedale perdono la vita centinaia di migliaia di civili. Danzica, Breslavia, Magdebur-go, Stettino, Dresda, Lipsia, Rostok, Jena, Halle, vengono rase al suolo. Inizia l’olocausto del popolo tedesco. Chi può resistere?

Nel declinare degli eventi, l’escalation dei bombardamenti sulla Germania – che causarono la morte anche di volontari del lavoro italiani, poi dati per dispersi – in questo disastro che la storia mai aveva conosciuto prima, il cibo scarseggia, il lavoro si fa duro, senza speranza. Forse innestati da elementi opportunisti o agenti infiltrati, gente non motivata politicamente, si ha notizia di atti di sabotaggio, di scioperi, di ladrocinii, di gesti delinquenziali che purtroppo vedono coinvolti i nostri connazionali. Qualcuno per gravi delitti sarà anche giustiziato. Come fanno i topi quando la nave affonda, a gruppetti isolati, certuni già sabotatori, borsaneristi, denigratori del Fascismo e che avevano mormorato: “Il saluto Heil mi fa schifo ora”, i furbi e gli opportunisti, qualche disperato allo sbando, certuni – dicevamo – tentano la via delle Alpi e abbandonano i cantieri e le fabbriche. Nel suo “Diario” Galeazzo Ciano scriveva: “Bisogna ammettere che fra i nostri operai in Germania vi è una percentuale di lazzaroni e intemperanti”. Ma la gran parte restò fedele fino allo stremo, a fronte di pochi lazzaroni.

Nei giorni dei più atroci bombardamenti alleati delle città tedesche, dei centri ferroviari, delle industrie, in ogni angolo di via era affisso un manifesto perentorio: “Wer pluendertwerd werd erschossen!” (Chi saccheggia sarà fucilato). E la legge valeva – come sempre – per tutti. La storia della prigionia e del rimpatrio degli italiani che si trovavano in Germania al crollo del Reich, sono altri capitoli di un’immane sofferenza per la fede.

(2. fine)

Due esempi di inserzioni pubblicitarie comparse su giornali italiani per l’arruolamento di lavoratori da impiegare nell’industria bellica tedesca. [ cliccare per ingrandire ]

Share

Comments are closed.