Preludio

Leggere l’articolo del Corriere della Sera del 28 ottobre 1922 – quindi alla viglilia della Marcia su Roma – fa comprendere come nei momenti di crisi profonda risuonino certe parole d'”ordine”.

«L’Italia vuole un Governo di uomini coscienziosi ed esperti, i quali dimostrino con sollecita e intelligente energia che alla soluzione o almeno alla rassicurante semplificazione dei problemi ond’ella è quasi soffocata si può procedere efficacemente entro i larghi e giusti confini della nostra costituzione liberale. E invoca atti e parole che richiamino i temerari a una condotta da cui non possano derivare conflitti dolorosi, che ristabiliscano la serenità dell’attesa e, rendendo meno difficile la costituzione del Governo, gli conferiscano sul nascere l’autorità che viene da una meno inquieta fiducia. Non vediamo oggi un dovere patriottico di partiti e di folle più urgente e più fecondo di questo».

Testata Corriere della Sera
Origine Milano – Italia
Data di pubblicazione 28 ottobre 1922

Le dimissioni del Ministero Facta
La crisi – divenuta ufficiale con le dimissioni del Ministero – si apre in un’aura infiammata da propositi e da sospetti di movimenti insurrezionali, fra minacce non oscuramente pronunziate e dubbi angosciosi. L’eloquenza veemente dell’impazienza da una parte e l’immaginazione dall’altra di tutte le possibilità in questa fiacchezza precipitosa degli organi governativi collaborano a ingrandire il pericolo e a determinare una nervosità che è di per sé sola un danno enorme.

Noi vogliamo sperare che quest’atmosfera tossica di esagerazione muterà rapidamente, ricomponendosi in elementi vitali più beneficamente moderati. E tutti coloro che hanno una responsabilità dello stato d’agitazione in cui è stato gettato il Paese devono lealmente adoperarsi ad affrettare questo mutamento, a riportare negli animi la calma e la fiducia dell’attesa. Quando la preoccupazione di avvenimenti gravi giunge a un certo punto – al punto a cui è giunta la preoccupazione attuale -, essa è già un disordine gravissimo e produce mali di cui l’Italia non può concedersi il lusso in circostanze come le presenti. Se ne hanno già segni evidenti, sui quali è opportuno non diffondersi mentre si aspettano dagli uni e dagli altri prove sollecite e chiare d’una coscienza della realtà che sola può dar la misura d’un patriottismo generoso.

Gli uomini parlamentari che hanno colpa diretta o indiretta della estremità alla quale la nazione si trova riportata, o che non hanno per il passato messa tutta la loro energia nello sforzo d’impedire gli errori di cui il peso comincia ad essere accasciante, devono intendere che certe minacce e certi rischi, come non si superano con una imbelle timidità e con una acquiescenza pari alla più imperdonabile abdicazione, non si fronteggiano con vane parole, sempre le stesse in casi sempre più gravi, non si dominano con soluzioni nelle quali giuochi i suoi giuochi meschini il vecchio spirito di corridoio sagace in intrighi che hanno la sottilità e la durata dei ragnateli. Sarebbe da disperare della opportunità di difendere l’istituto parlamentare se anche in questa crisi, la quale più di tutte le altre tocca nel vivo la nazione, l’abilità parlamentare apparisse un mezzo sufficiente e nell’abilità parlamentare rientrassero le solite schermaglie delle gelosie, delle ambizioni, dei calcoli partigiani per la solita gara di conquista dei portafogli. Nessun desiderio di conciliazione e di pacificazione potrebbero resistere allo spettacolo, per esempio, di uomini politici che prima di tutto si occupassero di mettere a posto gli amici fedeli e i servitori zelanti, e di gruppi che prima di tutto si accanissero a fissare la proporzione numerica degli acquisti. Il tempo dei padroni inflessibili è tramontato, e non è oggi il tempo dei molini elettorali a cui si debbano ad ogni costo tirar le acque torbide della politica di corridoio. Nessuno s’illuda che l’opinione pubblica, fatta più che mai vigilante dagli allarmi, guardi a una sola parte di coloro che hanno la responsabilità di quanto sta accadendo o sta per accadere. Nessuno opera così accortamente nell’ombra che non sia seguito né suoi movimenti e non sia giudicato nella sua condotta.

I fascisti, da parte loro, non possono illudersi pensando che gli ostentati propositi di azioni violente, che hanno un principio d’attuazione in Toscana, trovino davvero nel Paese quel vasto consenso sul quale è possibile fondare la rinnovazione della nostra vita politica nel Parlamento e fuori del Parlamento. Questo vasto consenso non c’è, e non ci può essere, perché un’azione violenta dei fascisti è già giudicata superflua in un paese dove alla loro volontà di portare nel Governo l’energia e le idee di cui si sentono forti non è opposto alcun impedimento, ma sono aperte e libere le vie costituzionali. E sarebbe giudicata, peggio che assurda, folle se fosse decisa e tentata soltanto a cagione d’un disaccordo su un portafoglio di più o di meno o, peggio, a cagione d’una preferenza pei gesti pittoreschi sopra l’accettazione di responsabilità meno brillanti ma più aderenti alla realtà nella vita e per la sorte della nazione.

Il fascismo è cresciuto per la indimenticabile tracotanza degli elementi antinazionali, col consenso d’un largo pubblico non fascista: consenso il cui calore e la cui forza sono stati maggiori quando l’azione fascista appariva governata da una necessità di vita e sono scemati tutte le volte in cui più che la necessità sembrava li traesse quella stessa forza d’impeto che, non frenata, va facilmente oltre il segno. Credere che questo largo pubblico sia disposto ad accettare tutti gli atti del fascismo o abbia abdicato nelle mani dei fascisti ogni suo diritto di critica e di giudizio moderatore o, se anche discorde, non conti nulla nel corso precipitoso degli avvenimenti ma si debba rassegnare a tutti i risultati, dopo tutti i tentativi, sarebbe disconoscere la realtà assai leggermente.

E la realtà è questa. La nostra vita politica interna non è più minacciata dai partiti antinazionali. La loro sconfitta, che è piena e meritata, li terrà prostrati per un pezzo ancora, se a favorirne la riscossa non provvederanno prolungati eccessi degli avversari. La nostra vita politica interna è invece oppressa, stancata, sfibrata da una atonia governativa che si è aggravata per i peccati d’origine e i peccati di sviluppo della ventiseiesima legislatura. Dunque, l’Italia non ha bisogno d’una dittatura che sia istituita abbattendo i limiti della vita costituzionale; che imponga con mezzi eccezionali – a chi? – il rispetto della legge e dello spirito nazionale, violando in blocco la legge e intorbidendo di facili ebbrezze e di inevitabili amarissime delusioni lo spirito della nazione. L’Italia ha bisogno di un Governo. Né, in mezzo a quella classe dominante contro la quale l’eloquenza fascista scaglia gli stessi vituperi che scagliò il bolscevismo, mancano gli uomini capaci di portare un utile contributo al Governo che si desidera. Poiché, se mancassero del tutto, è poi certo che ve ne siano nel solo fascismo, adatti – diciamo – non a comandare squadre, non a dirigere spedizioni e occupazioni, non a flagellare le vecchie colpe del sovversivismo e della democrazia incline a tutte le tresche, ma ad assumersi, con la serenità della competenza e con la calma d’un freddo assiduo dovere, il carico dei vari ministeri, i molteplici uffici della complessa e delicata funzione governativa? E se pur d’altri è necessaria la collaborazione, si può su questi altri contare avvolgendoli in un largo gesto di disprezzo o, peggio, chiamandoli a divenire compartecipi della responsabilità d’una ingiusta violenza contro lo Stato, contro la Costituzione, contro la vita normale – già così difficile – del Paese?

Non è possibile che, con tutta l’impazienza esasperata dalla inettitudine del Ministero estivo – di cui l’autunno doveva veder la caduta con quella delle prime fogli vizze – uomini devoti all’Italia non riconoscano l’inutilità di gesti eccessivi e irreparabili. Le ragioni che erano buone nel 1920 per richiamare alla coscienza degli italiani la realtà della vita economica, minacciata dal disordine più che da tutto il resto, perché nel disordine si prolungano e si aggravano tutte le altre cause di decadenza e di rovina, sono buone anche nel 1922. Le intenzioni possono essere opposte: i fatti economici, nella loro logica brutale e indomabile, non obbediscono alle intenzioni ma sono simili nella stretta somiglianza di effetti politici immediati. E in Europa, oggi – oggi come sempre e oggi più che mai – gli assenti hanno torto. E sono assenti quelli che si serrano violentemente nelle passioni divampanti della politica interna e pensano di procedere, attraverso un panico certo a una incerta salvezza. E gli altri non domandano di meglio, amici o nemici, che rimanere in minor numero agli assestamenti profittevoli.

Il primo accenno, in Toscana, d’un movimento rivoltoso troverà – speriamo – l’autorità governativa pronta a una inflessibile resistenza, come trova risoluta ad avversarlo la pubblica opinione, convinta che un’azione violenta di partito sarebbe una sciagura enorme. Essa non potrebbe avere l’approvazione, e neanche la rassegnazione, della grandissima maggioranza degl’italiani (compresa una parte dei fascisti), anche perché gl’italiani sanno – avendolo udito ripetere abbondantemente dai fascisti stessi – che l’Italia non è una nazione da trattare con dei colpi alla russa. E, indipendentemente dallo scopo, il metodo è di per sé un danno e un’offesa. L’Italia non vuole né bolscevismo né boulangismo.

L’Italia vuole un Governo di uomini coscienziosi ed esperti, i quali dimostrino con sollecita e intelligente energia che alla soluzione o almeno alla rassicurante semplificazione dei problemi ond’ella è quasi soffocata si può procedere efficacemente entro i larghi e giusti confini della nostra costituzione liberale. E invoca atti e parole che richiamino i temerari a una condotta da cui non possano derivare conflitti dolorosi, che ristabiliscano la serenità dell’attesa e, rendendo meno difficile la costituzione del Governo, gli conferiscano sul nascere l’autorità che viene da una meno inquieta fiducia. Non vediamo oggi un dovere patriottico di partiti e di folle più urgente e più fecondo di questo.

Il Consiglio dei Ministri si è riunito a Palazzo Viminale alle ore 16.30. La discussione è stata breve ed il Gabinetto ha deciso di presentare le proprie dimissioni. La riunione si è prolungata quindi per l’esame della situazione interna ed è terminata alle ore 19.00. Il Re, informato della decisione dell’on. Facta di rassegnare le dimissioni del proprio Ministero, ha fatto ritorno a Roma da San Rossore. Si ritiene che il Sovrano comincerà domani le sue consultazioni.

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