La Nuova Germania (2)
Dall’emeroteca Thule: tratto da “Storia del Novecento”, maggio 2001, di Nello Quilici
Capitolo precedente: Il Partito
LA NUOVA GERMANIA
Deutschland erwache! Germania svegliati!

Adolf Hitler si intrattiene con un’anziana donna tedesca durante una cerimonia. [cliccare questa come le altre immagini per ingrandirle]
Disarmare la Germania – ecco un sogno che i suoi nemici coltivano da secoli. Fu ripreso a Versailles: ed è crollato ancora una volta, senza remissione. Il popolo germanico non può vivere senza armi. Già ammoniva Tacito: «non fanno cosa alcuna, pubblica o privata, se non armati».
Non è vero che l’aspetto della vita tedesca, dal giorno in cui è stato apertamente ripreso il riarmo sia diventato più cupo. In caso è vero il contrario. La maschera democratica, imposta per forza e con l’aiuto volonterosissimo dei politicanti ultracattolici ed ultraebrei, le due internazionali accampate in Germania come in un paese di conquista, aduggiava insopportabilmente una popolazione che nell’esercizio delle armi, negli schieramenti militari, nella concezione della vita civile come permanente milizia, ritrova il suo genio nativo. «Odiando la quiete – dice ancora una volta Tacito – essi sono convinti di coprirsi di gloria tra i pericoli e di conservare un grande seguito soltanto in una vita forte e nella guerra». Certo durante l’inflazione si gavazzava in una abbondanza fittizia; si frustavano i sensi e lo spirito, e sì faceva anche di peggio, nei locali diurni e notturni, che hanno lasciato uno strano ricordo di vita pazza e illusoria, l’anomalia d’un sogno perverso e fugace. Ma i tedeschi affermano – ed hanno ragione – che quella era una Germania avvelenata, cocainizzata e morfinizzata dallo straniero: e non importa se lo straniero aveva i titoli di cittadinanza germanica in piena regola da tre o quattro generazioni. Il fondo era amaro. Tanto lustro brillante celava un orribile disinganno. Fuor dalle Università rutilanti di audace eclettismo universalistico e dalle redazioni ove si codificava la nuova internazionale del societarismo o della collettività comunista, sulla soglia della Banca che faceva del marco la bolla di sapone incantatrice dei mille scemi di oltre confine, a due passi dai ritrovi della mondanità, dove impazzava la goffa e integrale pacchianeria dei nuovi ricchi, la guerra civile ritmava al crepitio secco delle armi avversarie, il fratricidio; seminava odio e lutti. Un saturnale della morte ubriaca. Scomparsi i locali equivoci, restituito al costume un tono normale, inquadrata e disciplinata la ricchezza, anche oggi nei Tonndorf, nei Patzenhofer, nei Sedlmayr di Berlino, come negli Pschorrbraü di Monaco, si annegano i quarti sanguigni della bistecca all’Amburghese, le gran fette rosa antico del giambone ai krauti, le montagne di patate lesse al prezzemolo, nella birra frizzante e schiumosa che zampilla incessante dalla botte; e si balla con gusto, piroettando intorno alla dama all’uso antico o trascinandola al passo sincopato del jazz. Ma la gaiezza vera, anzi la beatitudine estatica, di una autenticità da non lasciar dubbi, di questo popolo erculeo e candido insieme, voi la ritroverete al primo accenno di piffero o di tamburo che annunci il passaggio di una qualsiasi formazione militare. Se qualche compagnia della Reichswehr attraversi la strada o la piazza dietro la fanfaretta che batte il tempo sulle note del Fridericus Rex; se un gruppo di giganti della S.S., vestiti, elmati, calzati di nero, si schieri con l’immobilità del granito, ben piantati sulle gambe aperte, fucile in spalla, davanti a un palazzo o a un monumento; se un corteo di S.A. sfili sotto gli enormi stendardi rossi dal bianco disco centrale, ove campeggia la croce gammata, e batta a ritmo impeccabile la pianta del piede appesantito dai grossi stivali, – i bevitori lasceranno la coppa ricolma, i danzatori si scioglieranno d’incanto, persino gli amorosi che non hanno persa l’abitudine di baciarsi a lungo tra i boschetti dei giardini, correranno sguinzagliati al richiamo irresistibile. Che dire del passo di parata? È tutt’altro che ridicolo in quella atmosfera, anzi maestoso. Ricordo due versi francesi: «Et leur pas est si net, sans tadre ni courir – qu’on croii voir des ciseaux se fermer et s’ouvrir». Il colpo della gamba rigida sul selciato è unisono e regolare come un tempo di musica.
Si gonfiano, si pressano, si ispessiscono, al passaggio, ali di popolo. Può accadere che una Mädel vi stringa la mano, – a voi ignoto e confuso tra la folla, – dall’emozione. Altra gente sopravviene di corsa dalle strade laterali, altra sbatte le imposte delle finestre; si ferma la balia secca col pupo nella cesta a ruote; lo strillone dei giornali, col berretto a visiera d’ottone lucido, resta di sale; il garzone della Bäckerei ferma il furgoncino a tre ruote pien di pane di sesamo, pizzicato di finocchio. Inondati d’amore, di rispetto, di riconoscenza tutti allungano le mani dritte come spade. E sul torrente umano ondeggiano i sanguinanti stendardi che si allungano dal terzo piano fin sul marciapiede.
Scena di tutti i giorni nelle grandi ricorrenze, al cospetto del Fuhrer, trasformata in raduni collettivi brulicanti e vasti come un mare umano. Non tumultuario e fragoroso come le folle latine: anzi composto, e tanto ordinato da far pensare a freddezza. Presto s’innalza l’«Horst Wessel Lied»: la musica scuote, ossessiona, agita e convulsiona nei precordi la massa già inerte e muta; il coro romba e passa come un uragano tra le foreste fonde. Squarcia acutissimo l’aria o geme nel profondo la voce degli ottoni; flauti, clarinetti e pifferi modulano l’intreccio dei lignei guaiti; grancasse, patti e tamburi punteggiano il canto di rombi e scrosci. Ma la voce umana, armonizzata naturalmente in terze e ottave, stupende di timbro e di tono, sembra uscire dal suolo, si orchestra in possente irresistibile unità, a spire larghe, nel cielo; invade le anime e le trascina con sé. Davanti ad ogni quadrato un maestro o un capo batte il tempo, fronte al Fuhrer, degli strumenti o delle voci, alzando e abbassando dalla fronte al petto una pesante mazza a punta, oppure brandisce la strana croce dei giannizzeri, con lunghe code di cavallo pendenti dalle due braccia.
Subentrano i canti popolari: «Dammi ancora un bacio. Non far la ritrosa. E se debbo morir, non piangere. ‘Noi dobbiamo combattere e vincere. Che io ritorni o no, che importa? Purché la patria mia, la Germania, sia libera!». A sera, in una qualsiasi Hofbrauhaus, profonde e vaste come cattedrali, a due o tre piani, dove duemila bevitori di birra possono dar fondo insieme all’entusiasmo e alle botti, i canti continueranno. Se si arrestassero penserà il grande Militärkonzert a riprender l’aire, dalle cantine ai tetti scuotendo mura, vetri e timpani, in fragor di ritmi altrettanto spietato quanto perfetto.
Duemila anni fa Tacito osservava: «Hanno pure inni di guerra, che mediante una modulazione da lor chiamata bardito, accendono gli animi e pronosticano l’esito della battaglia; essi terrorizzano o tremano secondo il suono della mischia e quel loro canto è una fusione di coraggi, piuttosto che un coro di voci. Si ricerca specialmente l’asperità del suono e il fragore spezzato, appoggiando gli scudi alle bocche perché la voce ripercossa si gonfi più piena e più grave…».
Questa Germania primeva, che si è ritrovata dopo la purificazione del tragico ventennio, pensa deliberatamente e consapevolmente alla guerra?
Vi pensa istintivamente. Nessun tedesco ha dimenticato che cosa fu, che cosa potrebbe essere. Due milioni di tedeschi dormono il gran sonno, ad est e a ovest, nei gorghi procellosi dei mari del Nord, nei valloni delle Alpi o dei Carpazi. Questi son proprio gli anni tristi delle «classi vuote», bianco limbo dei non-nati perché un’intera generazione si è affondata nella fornace. Ma la Grande Germania è sorta dalla sconfitta di Jena; quella nuova nasce dalla aspra ferita di Versailles. E insopprimibile così la coscienza di una enorme ingiustizia del destino, come l’imperativo della riscossa! Deutschland erwache Germania svegliati! Ma come? Prima di tutto impugnando le armi della «liberazione».
La guerra futura, se vi sarà e comunque si scateni e si svolga, sarà la Befreiungskrieg, non voluta, ma imposta. Da una legge che è superiore al giudizio, alla previsione e persino alla prudenza degli uomini. Intanto occorre accettarla come una necessità o una nemesi che è nella storia. Imprescindibile. E prepararsi. Così tutta la vita del popolo tedesco si ispira, si intona, si plasma sulla guerra. Prima di tutto moralmente. Dalla scuola all’officina, dall’educazione del fanciullo alla legislazione sociale, dalla disciplina della produzione allo sport, il Nazionalsocialismo predispone la nuova Germania al Befreiungskrieg.
Non ripeteremo cose già dette. Notiamo di sfuggita gli elementi nuovi del potenziamento bellico della nazione.
L’Arbeitsdienst, o servizio obbligatorio del lavoro creato con la legge 26 giugno 1935, ha una grande funzione sociale: livellare il ricco e il povero, distruggendo la dialettica economica, l’odio di casta, la sperequazione del privilegio. Ne ha una igienico-educativa: trasportare la gioventù ventenne fuor del quadrivio cittadino all’aria libera dei campi, che ritempra polmoni e muscoli, per sublimare il lavoro come un onore, riscattandolo dalla biblica funzione espiatrice che risale ad Adamo; ne ha una tecnica: insegnare al futuro ingegnere come si fa una strada o un canale; al futuro agricoltore come si bonifica un terreno; a un prossimo armatore come si costruisce un porto. I risultati sono ottimi. Ma chi misurerà il vantaggio di una disciplina Kasemenmässig, quella dei Gelandersport, quella insomma che costituisce per sei mesi l’allenamento più perfetto e positivo agli ulteriori dodici mesi di servizio militare che attendono i giovani ventenni? Invece della vanga adopreranno il fucile: l’esercizio non muterà di molto. E il ritmo alterno potrà essere ripreso negli anni futuri quandochessia. Dai due ai trecentomila ragazzi l’esperimentano ad ogni richiamo di classe con mirabili vantaggi, anche per le opere pubbliche in costruzione: a visitar queste ultime, a calcolarne il tempo impiegato e il costo, c’è da sbalordire. La mobilitazione industriale permanente: altra grandiosa realizzazione. Non priva anche essa di immediati benefici sociali: primo fra tutti, la scomparsa della disoccupazione. Un programma di autarchia che stimola la volontà e la tecnica e raggiunge la completa autonomia nei più vasti settori delle materie prime, carburanti, gomma, lana, seta. A Leverkusen e a Francoforte abbiamo avuto un’idea approssimativa della nuova organizzazione tecnica e commerciale dell’industria chimica tedesca. Ma che cosa non abbiamo visto? Leverkusen, a 10 chilometri da Colonia, è una città dì fabbriche cinta di mura come una fortezza antica, più grande di Ferrara; le case civili, per gli operai e gli impiegati son fuori, nell’anello verde che circonda la metropoli dell’alchimia moderna; ma dentro il misterioso recinto, tutto costruito in grandi blocchi rosso e cenere, sono strade e piazze e ferrovie e tram a vapore. Occorre un bel diporto in automobile per misurarne lo sviluppo: un bel tempo sarebbe occorso a noi, se per visitare il solo reparto filantropico-farmaceutico della Bayer abbiamo impiegato una mattinata: «I E G», specie di Mane Tekel Fares della guerra futura. Le autostrade. I francesi dicono che per avere una idea approssimativa della futura guerra germanica basta osservare il prospetto delle autostrade: sviluppate secondo il criterio della manovra interna a comando centrale. Lasciamo andare. Le autostrade tedesche sono intanto un magnifico sistema arteriale per la circolazione del turismo, del commercio, della vita civile. Ma è certo che il loro sviluppo, quando sarà completo, di oltre 7000 chilometri; le loro proporzioni, due selciati paralleli, larghi da 7,50 a 12 metri, con un terrapieno intermedio di metri 4, ad aiuola erbosa e a siepe, per fermare i raggi abbaglianti dei fari; il materiale, tutto a infrastrutture di ferro beton che ha spesso una profondità di sessanta centimetri; il sistema delle curve e degli innesti; tutto questo superbo sforzo della finanza e della tecnica tedesca (vi lavorano attualmente 150.000 uomini) non sarà privo di risultati in caso di guerra. Le armate del ’14 erano ancora in gran parte montate sui cavalli: e la ferrovia, con i suoi lunghi scarichi e trasbordi e l’ingorgo delle linee fu la spina dorsale della mobilitazione. Si prevede, dovunque, per il futuro il trionfo della motorizzazione. Ma fino a ieri il massimo carico utile degli automezzi era di 8 tonnellate. In Germania corrono oggi camion di 15: e si annunciano quelli di 50 tonnellate. Si parla di autocarri di 300 e anche di 400 cavalli, ognuno dei quali può portare fino a 40 uomini, a una velocità di 70 chilometri all’ora. Spaziandoli a 15 metri l’un dall’altro è permesso prevedere il trasporto di 72.000 uomini, su cento chilometri, in un ora! Ciò che era follia sperare su strade ordinarie, sarà possibile su autostrade che permettono il passaggio di fronte di tre vetture senza inconvenienti e per qualunque peso!
Il sangue, la fedeltà, l’onore: ecco il trinomio nel quale si sintetizza il mito della liberazione e della rinascita. Essa è in atto. Può l’Europa non tenerne conto?