Uomo e Natura in Hölderlin
Breve cenno.
Iperione o l’eremita in Grecia (Hyperion oder der Eremit in Griechenland) è un romanzo di Johann Christian Friedrich Hölderlin (1770-1843). Cominciato a scrivere nel 1792, ne viene spedito un frammento per la prima volta con il titolo Fragment zum Hyperion alla rivista “Thalia”, dallo stesso Hölderlin, nel 1794. Il primo volume verrà poi pubblicato dall’editore Cotta nel 1797 e il secondo nel 1799.
È la vicenda dell’uomo moderno, dell’uomo tedesco nello specifico, che non è capace di armonizzare le forze della sua anima perché ha perduto il senso del divino e dell’armonia. Compito del poeta è dunque quello di ristabilire e tener desto il culto degli dèi sia nella morta Grecia (doppiamente morta in quanto oppressa dai Turchi e immemore degli dèi) e nella Germania (incapace di agire). Il poeta dunque è un poeta vate che, fallito sul piano dell’azione pratica e violenta della guerra decide di lottare per il proprio popolo tenendo desto il culto degli dèi, aiutando a ristabilire la perduta armonia.
Tratto da F. Hölderlin, Iperione [1792-1799], Libro I, Lettera II & III.
«Io non posseggo nulla di cui possa dire che sia veramente mio.
I miei amati sono lontani e morti, e di loro non mi giunge più alcuna
voce.
La mia attività sulla terra è finita. Sono andato al lavoro pieno di voglia,
per esso ho versato il mio sangue, e non ho reso il mondo più ricco neanche di
un centesimo.
Ritorno senza gloria e solo, e me ne vado per la mia patria, che si
estende tutt’intorno come un giardino di morti. Ad attendermi resta forse solo
il coltello del cacciatore, che si tiene noi Greci per divertimento, come fossimo
selvaggina di bosco.
Ma tu, sole del cielo, splendi ancora! Tu verdeggi ancora, salubre terra!
Sussurrano ancora i torrenti che scorrono fin nel mare e alberi ombrosi
mormorano nel meriggio. Il canto di gioia della primavera culla i miei pensieri
mortali. La pienezza del mondo – vivo in ogni sua parte – nutre e sazia di
ebbrezza il mio penoso essere.
O natura beata! Io non so che cosa mi accada, quando alzo i miei occhi
davanti alla tua bellezza, ma ogni gioia del cielo è nelle lacrime che piango
davanti a te, come l’amato al cospetto dell’amata.
Tutto il mio essere ammutolisce e si mette in ascolto, quando il dolce
soffio dell’aria gioca intorno al mio petto. Come perso nel vasto azzurro, volgo
spesso lo sguardo all’etere e dentro il salubre mare, e mi pare che uno spirito
affine mi apra le braccia e il dolore della solitudine si sciolga nella vita della
divinità.
Essere una cosa sola con tutto – è questa la vita della divinità, è questo
il cielo dell’uomo.
Essere una cosa sola con tutto ciò che vive; ritornare, dimentichi
beatamente di se stessi, nel tutto della natura – è questo il culmine dei pensieri
e delle gioie, è questa la salubre vetta, il luogo dell’eterna quiete, in cui il
meriggio abbandona la sua afa e il tuono perde la sua voce e il mare, nel suo
ribollire, assomiglia all’onda del campo di grano.
Essere una cosa sola con tutto ciò che vive! A queste parole, la virtù
depone l’armatura con cui è pronta a fare la guerra, l’ingegno dell’uomo mette
da parte lo scettro, e tutti i pensieri svaniscono al cospetto dell’immagine del
mondo eternamente unito – cosa che capita anche alle regole che un vero
artista si è costruito, una volta che questi si trovi davanti alla sua Urania –, e il
destino ferreo rinuncia a ogni dominio, e dalla lega degli esseri svanisce la
morte, e inseparabilità ed eterna giovinezza colmano di beatitudine e rendono
bello il mondo.
Mio Bellarmino, mi trovo spesso a quest’altezza! Ma basta che per un
momento io mediti, perché venga rigettato in basso. Rifletto e mi trovo come
ero prima, solo, con tutti i dolori propri di noi mortali, e l’asilo del mio cuore –
il mondo eternamente unito – è perduto; la natura serra le sue braccia, ed io me
ne sto davanti a lei come un estraneo, senza comprenderla.
Ah! non fossi mai andato alle vostre scuole. La scienza, che seguivo nei
suoi scavi, da cui, in modo folle come di chi è giovane, aspettavo la conferma
della mia gioia più pura – la scienza mi ha rovinato ogni cosa.
Presso di voi sono diventato così ragionevole; ho imparato così bene a
differenziarmi da quanto mi circonda, che ora mi trovo isolato all’interno del
nostro bel mondo, espulso dunque dal giardino della natura in cui crebbi e
fiorii, e rinsecchisco al sole del meriggio.
Oh l’uomo è un dio quando sogna, un mendicante quando riflette, e
quando viene perso l’entusiasmo, se ne sta al mondo come un figlio fallito,
cacciato di casa dal padre, che guarda i miseri centesimi che la compassione gli
ha voluto concedere lungo il cammino della sua vita».
*
«Ti ringrazio che tu mi chieda di raccontarti di me, che tu mi riporti alla
memoria i tempi passati.
Anche questo mi spinse a tornare in Grecia: il voler vivere più vicino ai
giochi della mia giovinezza.
Come il lavoratore nel sonno ristoratore, così il mio essere tormentato
cade tra le braccia del mio innocente passato.
Quiete della fanciullezza! Quiete celestiale! Quanto spesso me ne sto in
silenzio davanti a te in amorevole contemplazione, e desidero pensarti! Ma in
realtà noi disponiamo di concetti solo per quel che una volta è andato male e
che poi è stato ristabilito; della fanciullezza, dell’innocenza non abbiamo invece
alcun concetto.
Allorché ero ancora un fanciullo silenzioso e nulla sapevo di tutto quel
che mi circondava, non ero allora ben di più rispetto ad oggi, con tutte le pene
del mio cuore e con tutto il mio pensare e lottare?
Sì! Il fanciullo è un essere divino, finché non si trova immerso nei
colori camaleontici degli uomini.
Egli è quel che è fino in fondo, ed è per questo che è così bello.
La costrizione rappresentata dalla legge e dal destino non lo tocca; nel
fanciullo non è che libertà.
In lui è pace; non è ancora in discordia con se stesso. In lui non c’è che
ricchezza; conosce il suo cuore, ma non l’indigenza della vita. È immortale
perché non sa nulla della morte.
Ma gli uomini non possono sopportare tutto ciò. Lui, il divino, deve
diventare come uno di loro, deve sapere che anche loro ci sono, e prima che
egli cacci la natura dal proprio paradiso, gli uomini lo adulano e lo trascinano
fuori da esso, e gli insegnano ad imprecare e bestemmiare, affinché anche lui,
come loro, si ammazzi di lavoro e abbia il sudore sulla fronte.
Ma è anche bello il tempo in cui ci si desta, se solo non ci si sveglia
anzitempo.
Oh sono giorni salubri, in cui il nostro cuore prova per la prima volta le
proprie ali, in cui noi, nel bel mezzo di una crescita rapida e infuocata, fioriamo
all’interno dello splendido mondo, come la giovane pianta, quando si schiude al
sole mattutino e tende le sue piccole braccia incontro al cielo infinito.
Come me ne andavo per le montagne e sulla riva del mare! Ah, quanto
spesso mi sedevo là col cuore palpitante, sulle alture presso Tino, e seguivo i
falchi e le gru, e le ardite e gaie navi che scomparivano laggiù all’orizzonte!
Laggiù! pensavo, per di là anche tu vagherai un giorno, e mi sentivo come uno
che, languendo, si getta in un bagno refrigerante e si versa le acque
spumeggianti sulla fronte.
Tutto sospirante, me ne tornavo nuovamente a casa. Se solo fossero
trascorsi gli anni della scuola, pensavo spesso.
Bel giovane! Non lo saranno ancora per molto tempo.
Che l’uomo durante la sua giovinezza creda l’obiettivo così vicino! è la
più bella di tutte le illusioni con cui la natura soccorre la debolezza del nostro
essere.
E quando me ne stavo sdraiato tra i fiori e mi abbronzavo alla dolce
luce primaverile, e volgevo lo sguardo all’azzurro sereno che avvolge la calda
terra, quando me ne stavo seduto tra gli olmi e i salici in grembo alla montagna
dopo una pioggia ristoratrice, quando i rami vibravano ancora dei contatti con
il cielo, e sopra il bosco gocciolante si muovevano nuvole dorate, o quando la
stella della sera, colma di uno spirito di pace, spuntava insieme agli antichi
adolescenti – i restanti eroi del cielo –, e vedevo come la vita in essi procedesse
attraverso l’etere secondo un ordine eterno e senza fatica, e la quiete del
mondo mi cingeva e mi dava gioia; al punto che ero tutto preso e in ascolto,
senza sapere che cosa mi accadesse – “mi vuoi bene, Padre buono in cielo!”
chiedevo allora sommessamente, e sentivo la sua risposta così certo e beato nel
cuore.
Oh tu, che io invocavo, quasi tu fossi oltre le stelle, che io chiamavo
Creatore del cielo e della terra, idolo benigno della mia fanciullezza, tu non
sarai adirato che ti ho dimenticato! Perché il mondo non è povero abbastanza
affinché si cerchi, fuori di esso, ancora Uno?1
Oh se il mondo – la splendida natura – è figlia di un padre, non è il
cuore della figlia il suo stesso cuore? Non è il padre la cosa che più
intimamente la compenetra? Ma io allora lo posseggo? E lo conosco?
È come se vedessi, ma poi mi spavento di nuovo, come se non avessi
visto che la mia stessa figura, è come se lo sentissi, lo spirito del mondo, come
la calda mano di un amico, ma poi mi sveglio e credo di non aver afferrato che
le mie dita».