Breda modello 1930

Breda modello 1930

br1In generale, nella storia dell’armamento italiano, si possono individuare svariati intuizioni anticipatrici di tempi e concezioni, seguite però da rilevanti errori d’impostazione e realizzazione, che in seguito resero inutile (o peggio nociva) un’idea inizialmente buona: questo è il caso del fucile mitragliatore Breda modello 1930.

Noi italiani fummo i primi ad intuire l’estrema versatilità di un fucile automatico leggero d’assalto che utilizzasse non proiettili particolari o specifici, ma munizioni da pistola automatica (pensiamo alla Revelli bicanne Villar Perosa), ma per uno strano schizofrenismo dello stato maggiore dell’esercito si utilizzò pochissimo la mitragliatrice durante il secondo conflitto mondiale. Per amore di verità ed a dispetto di un certo cieco nazionalismo lo scrivente sottolinea gli ampissimi e documentatissimi casi di corruzione e di alto tradimento, oltre le vere e proprie “parentopoli” che portavano veri e propri incompetenti a rivestire cariche di primo livello, con risultati noti in campo storico.

Dopo la prima guerra mondiale si sentì il bisogno di dotare l’esercito di una mitragliatrice leggera, facilmente manovrabile ed affidabile. Si passò quindi dal Fiat modello 1926 al Fiat modello 1928, per arrivare infine al Breda modello 5 C, fucile automatico dotato di canna intercambiabile, quindi al passo coi tempi, almeno da questo punto di vista: infatti il fucile presentava delle caratteristiche assolutamente inconcepibili in un’arma moderna, quali l’impugnatura a maniglia (tipica delle mitragliatrici pesanti), il montaggio su treppiede (che limitava fortemente la maneggevolezza) ed il bisogno di lubrificare ogni cartuccia prima dell’immissione nella camera di scoppio (per questa necessità fu ideato in seguito un sistema di lubrificazione automatico). La Breda però era un’ampissima società italiana divisa in più sezioni e dotata di ingegneri preparatissimi dal punto di vista teorico (particolare da tenere a mente, poiché sarà determinante per il valore del fucile oggetto del testo) , cercò così di risolvere le problematiche di questo fucile. Nel successivo modello 1929 si ovviarono a due dei difetti dell’arma, dotandola di un’impugnatura diritta a pistola e di un bipiede anteriore: si puntò quindi a rendere l’arma più comoda e maneggevole. Infine si arrivò al modello 1930, dove l’impugnatura venne inclinata per mantenere una presa più naturale. Il calibro (6,5 mm), il munizionamento e la meccanica rimasero invariati nei tre modelli: funzionamento automatico, ad utilizzazione diretta del rinculo, canna ed otturatore rinculanti per spazi disuguali, alimentazione a serbatoio laterale ribaltabile, da caricare con piastrine da 20 colpi; raffreddamento della canna ad aria, con l’ausilio di rondelle circolari d’acciaio. Il fucile inoltre era lungo 1,23 m, pesava 11 kg, la velocità della pallottola alla bocca era di 620 m/s, con portata massima di 2800 m e tiro utile di 1000 m.br2

I pregi del Breda 1930 sono così identificabili: estrema perfezione meccanica. Ma purtroppo il suo punto di forza sarà anche il suo più grande punto di debolezza, causa di un grande numero di difetti che lo porteranno ad essere scomodo e poco utile durante il combattimento.

Questo fucile nasceva sotto le migliori idee: lo stato maggiore dell’esercito, a seguito della mentalità offensiva dell’allora governo intuì l’importanza delle azioni portate in atto dalla semplice fanteria sul campo di battaglia, che non doveva più limitarsi a seguire la squadra fucilieri dando appoggio e copertura durante le avanzate e le ritirate, ma prendere parte attiva all’assalto insieme a questi. L’intuizione fu notevole, i fucilieri infatti erano dotati di armi potenti e dalla lunga gittata, ma con bassa cadenza di colpi (dopo ogni colpo dovevano aprire, riportare indietro, tirare in avanti e chiudere il meccanismo dell’otturatore girevole-scorrevole): affiancandogli la fanteria dotata di fucili mitragliatori (meno potenti, ma necessari della sola pressione del grilletto per sparare raffiche) si aumentava notevolmente il volume di fuoco della squadra, rendendo ogni operazione veloce e letale come un uragano. In questi termini l’idea italiana riuscì persino ad anticipare la filosofia della macchina bellica tedesca. Peccato però che queste idee rimasero inattuate nella realtà, almeno sino al 1937 (anno di produzione del nuovo fucile mitragliatore). La fanteria italiana fu infatti armata con un fucile, il Breda 1930, che non era capace di soddisfare i più elementari parametri del combattimento bellico. Questo fucile infatti fu realizzato da tecnici ed ingegneri che, pieni della loro preparazione accademica, non tennero in minima considerazione i suggerimenti di coloro che scendevano sul campo di battaglia, preferendo invece basarsi sui loro libri, conditi da inutili formuloni e basandosi esclusivamente sulle condizioni ideali della sperimentazione all’interno del poligono di tiro (dotato di appositi fermi dove appoggiare l’arma, dove l’operazione di ricarica può essere eseguita in piena tranquillità, con condizioni ambientali controllate): l’arma prodotta rappresentava quindi un estremo virtuosismo meccanico, quasi barocco, ma assolutamente inutile sul campo. Vediamo i difetti principali, tutti derivanti dall’assoluta mancanza d’esperienza pratica dei progettisti: il fucile era,in virtù dell’alta precisione delle sue parti meccaniche (simile ad un orologio svizzero), altamente delicato: non doveva subire urti, scosse, colpi. Inoltre necessitava di una continua lubrificazione, ma il lubrificante scelto era assolutamente inadatto alle condizioni belliche: congelava facilmente sotto lo zero, mentre sopra i 20 gradi era così liquido da trasportare polveri,sabbia ed altro dentro i meccanismi: in entrambi i casi l’arma si inceppava e doveva essere smontata per ripulirla. I costi di lavorazione inoltre erano eccessivamente alti per un’arma da produrre in massa, economicamente insostenibili. Altro problema era quello relativo alla metodologia di ricarica dell’arma: il soldato doveva aprire il caricatore fisso, girarlo in avanti verso la canna,inserire la piastrina contenente i 20 colpi, estrarla con forza e richiudere il caricatore; vi era poi un altro problema: le piastrine erano fragili ed una volta deformate non potevano più essere utilizzate. Il lettore quindi si metta nei panni di un soldato nel mezzo della battaglia e capirà perché la cadenza di tiro pratica era di soli 150 colpi al minuto contro i 475 risultati dalle prove in poligono. Altre problematiche erano poi connesse alle dimensioni dell’arma (estremamente scomoda da trasportare, specie durante le fasi più concitate delle battaglie) e dal fatto che i progettisti dimenticarono di inserire un manico per il trasporto, sicuramente inutile se si testa il fucile su un banco di prova, ma estremamente necessario per un soldato. La cosiddetta ciliegina sulla torta era costituita dal pessimo sistema di raffreddamento (anche questa problematica probabilmente non era stata considerata o peggio notata dai teorici progettisti) che rendeva la canna del fucile spesso rovente e praticamente ingestibile,impossibile da sostenere con la mano, impedendo di fatto lunghe raffiche di fuoco.

br4Nonostante tutto vennero prodotti più di 30000 esemplari di questo fucile, seguendo la logica del “meglio questo che niente”. Utilizzata in tutti gli scenari bellici italiani, occorre riportare che quest’arma fu utilizzata ed apprezzata dall’esercito tedesco: la Wehrmacht infatti capì che se da un lato il fucile era assolutamente inadatto all’assalto, dall’altro era assolutamente utile nelle postazioni fisse e nei perimetri difensivi, vista la stabilità di tiro e la lunga gittata.

Pasquale Piraino

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