Carattere e imprese di Apollo [prima parte]

Carattere e imprese di Apollo

Apolloa) Apollo, figlio di Zeus e di Latona, nacque di sette mesi, ma gli dèi crescono in fretta. Temi lo nutrì di nettare e ambrosia, e dopo quattro giorni il bimbo già chiedeva a gran voce arco e frecce, che Efesto subito gli porse. Partito da Delo, Apollo si diresse senza indugio verso il monte Parnaso, dove si celava il serpente Pitone, nemico di sua madre, e lo ferì gravemente con le sue frecce. Pitone si rifugiò presso l’oracolo della Madre Terra a Delfi, città così chiamata in onore del mostro Delfine, compagna di Pitone; ma Apollo osò inseguirlo anche nel tempio e lo finì dinanzi al sacro crepaccio.

b) La Madre Terra, oltraggiata, ricorse a Zeus che non soltanto ordinò ad Apollo di farsi purificare a Tempe, ma istituì i giochi Pitici in onore di Pitone, e costrinse Apollo a presiederli per penitenza. Apollo, sfrontatamente, non si curò di obbedire agli ordini di Zeus e invece di recarsi a Tempe andò a Egialia, in compagnia di Artemide, per purificarsi; e poiché il luogo non gli piacque, salpò per Tarra in Creta, dove re Carmanore eseguì la cerimonia di purificazione.

c) Al suo ritorno in Grecia, Apollo andò a cercare Pan, il dio arcade dalle gambe di capra e dalla dubbia riputazione, e dopo avergli strappato con blandizie i segreti dell’arte divinatoria, si impadronì dell’oracolo delfico e ne costrinse la sacerdotessa, detta pitonessa, a servirlo.

d) Latona, udita questa notizia, si recò con Artemide a Delfi, dove si appartò in un sacro boschetto per adempiere a certi riti. Il gigante Tizio interruppe le sue devozioni e stava tentando di violentarla,  quando  Apollo e Artemide, udite le grida della dea, accorsero e uccisero Tizio con un nugolo di frecce:  una vendetta che Zeus, padre di Tizio, si compiacque di giudicare pio atto di giustizia. Nel Tartaro Tizio fu condannato alla tortura con le braccia e le gambe solidamente fissate al suolo;  il suo enorme corpo copriva un’area di nove acri e due avvoltoi gli mangiavano il fegato.

e) In seguito Apollo uccise il satiro Marsia, seguace della dea Cibele. Ed ecco come si svolsero gli eventi. Un giorno Atena si fabbricò un doppio flauto con ossa di cervo e lo suonò a un banchetto degli dèi. Essa non riuscì a capire, dapprima, perché mai Era e Afrodite ridessero silenziosamente nascondendosi il volto tra le mani, benché la sua musica  paresse  deliziare  gli  altri  dèi;  appartatasi  perciò  nel bosco frigio, riprese a suonare nei pressi di un ruscello e così facendo osservò la sua immagine riflessa nello specchio delle acque. Resasi subito conto di quanto fosse orribile a vedersi, col viso paonazzo e le gote enfiate, gettò via il flauto e lanciò una maledizione contro chiunque lo avesse raccolto.

f) Marsia  fu  l’innocente   vittima  di   quella  maledizione. Egli trovò per caso il flauto e non appena se lo portò alle labbra lo strumento si mise a suonare da solo, quasi ispirato dal ricordo della musica di Atena. Marsia allora percorse la Frigia al seguito di Cibele, deliziando con le sue melodie i contadini ignoranti. Costoro infatti proclamavano che nemmeno Apollo con la sua lira avrebbe saputo far di meglio, e Marsia fu tanto sciocco da non contraddirli. Ciò naturalmente provocò l’ira di Apollo che sfidò Marsia a una gara: il vincitore avrebbe inflitto al vinto la punizione che più gli fosse piaciuta. Marsia acconsentì e Apollo affidò il giudizio alle Muse. I due contendenti chiusero la gara alla pari, poiché le Muse si dichiararono egualmente deliziate dalle loro melodie, ma Apollo gridò allora a Marsia: « Ti sfido a fare col tuo strumento ciò che io farò con il mio; dovrai capovolgerlo e suonare e cantare al tempo stesso ».

g) Il flauto, come logico, non si prestava a una simile esibizione e Marsia non potè raccogliere la sfida. Apollo invece rovesciò la sua lira e cantò inni così dolci in onore degli dei olimpi, che le Muse non poterono fare a meno di dichiararlo vincitore. Allora Apollo, nonostante la sua presunta dolcezza, si vendicò di Marsia in modo veramente efferato e crudele, scorticandolo vivo e appendendo la sua pelle a un pino (oppure a un platano, come altri sostengono) presso la sorgente del fiume che ora porta il suo nome.

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