Ganimede

Ganimede

a) Ganimede, figlio del re Troo che diede il suo nome a Troia, fu il più bello dei fanciulli viventi e venne perciò scelto dagli dèi per fare da coppiere a Zeus. Si dice che Zeus, desiderando Ganimede anche come compagno dì letto, si travestì con penne d’aquila e lo rapì nella pianura di Troia.

Bertel-Thorvaldsen-ganimedeb) In seguito Ermete, in nome di Zeus, donò a Troo un tralcio di vite d’oro, opera di Efesto, e due splendidi cavalli, per compensarlo della perdita del figlio, assicurandogli al tempo stesso che Ganimede era divenuto immortale, immune dalle miserie della vecchiaia, e in quel momento sorrideva, con la coppa d’oro tra le mani, mentre mesceva il nettare al Padre del Cielo.

c) Altri dicono che Ganimede fu rapito dapprima da Eos, invaghitosi di lui, e che Zeus in seguito lo sottrasse alla dea. Comunque fossero. andate le cose, Era considerò quel ratto come un insulto fatto a lei stessa e alla sua figliola Ebe, che fino a quel giorno era stata coppiera degli dèi; ma riuscì soltanto a irritare Zeus, che pose negli astri l’immagine di Ganimede, facendone la costellazione dell’Acquario.

Approfondimenti

1 Il compito di Ganimede (che nella versione più antica della leggenda era coppiere di tutti gli dèi e non soltanto di Zeus) e i due cavalli donati al re Troo come compenso per la morte del figlio ci fanno supporre che il mito nascesse dalla errata interpretazione di una qualche raffigurazione del nuovo re nell’atto di prepararsi alle sacre nozze. La coppa di Ganimede conteneva probabilmente libagioni da offrire all’ombra del suo defunto predecessore regale: e il sacerdote officiante, cui Ganimede oppone la resistenza prescritta dal rito, fu scambiato per un bramoso Zeus. In modo analogo la sposa in attesa fu creduta Eos da un mitografo che rammentava la leggenda di Eos che rapisce Titono, figlio di Laomedonte, dato che, secondo Euripide (Le Troiane 822), Ganimede era figlio di Laomedonte. La medesima raffigurazione poteva riprodurre forse anche le nozze di Peleo e Teti, cui gli dèi assistevano dall’alto dei loro dodici troni; i due cavalli erano strumenti rituali della rinascita del re dopo la sua finta morte. Il particolare dell’aquila che rapisce Ganimede si spiega con un vaso ceretano a figure nere dove si vede un’aquila che emerge dalla coscia del re appena insediato in trono; il re è Zeus, e l’aquila personifica il potere divino che gli viene conferito (il suo ka, ossia la sua seconda personalità) così come il falco solare scendeva sui Faraoni al momento della loro incoronazione. Tuttavia, il fatto che Ganimede sia sempre descritto come giovanetto lascia supporre che il re rappresentato iconograficamente sia il sostituto regale o interrex, che regnava per un solo giorno: come Fetonte, Zagreo, Crisippo e altri. In questo senso l’aquila poteva avere un doppio significato: consacrava la regalità di Ganimede e lo rapiva sull’Olimpo.

2 L’episodio del re che sale al cielo sul dorso di un’aquila o sotto forma di aquila, fu molto sfruttato dalla letteratura religiosa. Aristofane ne fa la caricatura ne La Pace, facendo salire al cielo il suo eroe sul dorso di uno scarafaggio. L’anima dell’eroe celtico Lugh (Llew Llaw nel Mabinogiori) saliva al cielo sotto forma di aquila Quando il successore lo uccideva a mezza estate. Etana, l’eroe babilonese, dopo le sue nozze sacre con Kish si recava a cavallo di un’aquila verso la paradisiaca dimora di Ishtar, ma cadeva nel ma-re e annegava. La morte di Etana, sia detto per inciso, non fu una del-te molte forme di sacrificio che chiudevano il regno annuale del re sacro, come accadde nel caso di Icaro (vedi 92, 3), ma una punizione per il cattivo raccolto che aveva caratterizzato il suo regno: egli infatti volava a cercare la magica erba della fertilità. La sua storia è un episodio che si inserisce nella continua lotta tra Aquila e Serpente, l’anno che nasce e l’anno che muore, il re e il successore, e come nel mito di Llew Llaw, l’Aquila, ridotta in fin di vita al solstizio d’inverno, ritrova magicamente vita e forza. Anche nel Salmo CHI 5 troviamo scritto: «la sua giovinezza sì rinnovellò, come quella dell’Aquila ».

3 Il mito di Zeus e Ganimede fu molto popolare in Grecia e a Roma perché offriva una giustificazione religiosa all’amore di un uomo adulto per un giovanetto. In precedenza la sodomia era stata tollerata soltanto come una forma estrema di devozione alla dea; i fedeli di Cibele tentavano di raggiungere l’unione estatica con la dea evirandosi e vestendosi da donne. Un collegio di sacerdoti sodomiti era ufficialmente riconosciuto nei templi della Grande Dea a Tiro, loppa, Ierapoli e a Gerusalemme (Primo Libro dei Re XV 12 e Secondo Libro dei Re XXIII  7)  fino all’epoca immediatamente precedente l’Esilio. Ma questa nuova forma di passione amorosa, che secondo Apollodoro fu introdotta da Tamiri, accentuava la vittoria del patriarcato sul matriarcato e trasformò la filosofia greca in un gioco intellettuale che gli uomini praticavano senza l’aiuto delle donne, dal momento che potevano spaziare nel nuovo campo dell’amore omosessuale. Platone sfruttò a fondo tale situazione e si servì del mito di Ganimede per giustificare i propri sentimenti nei riguardi dei suoi alunni (Fedro 79); benché altrove (Le leggi I 8) egli condanni la sodomia come contro natura e definisca i miti degli amori omosessuali di Zeus « una malvagia invenzione cretese ». (Questa tesi è appoggiata da Stefano di Bisanzio, sub voce Harpagia, il quale dice che re Minosse di Creta rapì Ganimede per farne il suo amante « avendone ricevuto ordine da Zeus ».) Col diffondersi della filosofia platonica, la donna greca, che prima aveva il predominio nella vita intellettuale, si trasformò in una lavoratrice domestica non pagata e in una procreatrice di figli, mentre Zeus e Apollo erano gli dèi onnipotenti.

4 Il nome di Ganimede si riferisce propriamente al gioioso ridestarsi del desiderio del giovanetto all’idea delle nozze, e non al desiderio di Zeus rinfocolato dal nettare versatogli dall’amante; ma divenuto catamitus in latino, diede origine alla parola inglese « catamite » che indica il passivo oggetto della libidine omosessuale maschile.

5 La costellazione dell’Acquario, identificata con Ganimede, era in origine una divinità egizia preposta alle sorgenti del Nilo e che versava acqua e non vino dal suo fiasco (Pindaro, Frammento 110); i Greci tuttavia si interessavano ben poco del Nilo.

6 Il nettare di Zeus, che i mitografi di epoca più tarda descrissero come vino rosso sovrannaturale, era in verità un primitivo idromele e l’ambrosia, lo squisito cibo degli dèi, pare fosse una pappa di orzo, olio e frutta schiacciata di cui si abbuffavano i re mentre i loro sudditi più poveri vivevano ancora di asfodeli, di malva e di ghiande.

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