Svipdagr
Svipdagr
Svipdagr, il «giorno [che] improvvisamente [irrompe]», figlio di Sólbjartr, «luminoso come il sole», è l’eroe solare per eccellenza che percorre l’itinerario verso la dimora della fanciulla sovrannaturale, immagine della sposa celeste. In questo cammino, cui è spinto dal volere di un fato apparentemente avverso, non mancheranno insidie e dolore: egli tuttavia riuscirà a portarlo a perfetto compimento grazie anche al dono di un viatico di saggezza.
Svipdagr era il nome di un giovane, Gróa quello di sua madre. Costei era morta da tempo, ma in vita era stata una maga. II padre di Svipdagr aveva sposato un’altra donna.
Un giorno Svipdagr si recò al tumulo di Gróa e recitò un canto evocatore, ricordandole che proprio lei lo aveva ammonito a cercarla in caso di bisogno. Si ridestò dunque Gróa dal sonno dei morti e domandò che cosa preoccupasse il suo unico figlio e quale sciagura fosse mai accaduta perché egli cercasse la madre ormai sepolta, lontana dal mondo degli umani.
Svipdagr rispose che la perfida matrigna gli aveva affidato un compito assai gravoso, ingiungendogli di mettersi in viaggio verso la dimora di Menglöð, luogo che nessuno fra gli uomini era mai stato in grado di raggiungere. Lungo era il viaggio – disse Gróa – e lunghi i sentieri: lunga altrettanto l’attesa degli uomini, sempre ché egli compisse il suo volere e Skuld guidasse il corso del fato. Svipdagr la pregò di cantare degli incantesimi propizi; era sua madre: aiutasse dunque il figlio! Altrimenti temeva di non completare il cammino: gli pareva d’essere ancor giovane per questo!
In piedi su un masso ben fisso nel terreno, sulla porta del regno dei morti, Gróa cantò per il figlio nove incantesimi possenti. Col primo gli tolse ogni gravame dalle spalle e lo aiutò a trovare da sé la strada; col secondo gli trasmise i canti capaci di infondere coraggio lungo il cammino; col terzo recitò una magia potente sulle acque: fiumi impetuosi quali Horn e Ruðr, capaci di metterlo in pericolo di vita, avrebbero deviato il corso verso il regno dei morti scomparendo davanti a lui; col quarto – disse – sarebbe mutato l’animo dei nemici incontrati per via ed essi sarebbero divenuti disposti all’amicizia e alla pace; il quinto avrebbe sciolto le catene che potessero legare le membra; il sesto avrebbe acquietato il mare tempestoso e reso gli elementi della natura propizi a un viaggio tranquillo; il settimo lo avrebbe protetto dal freddo e dal gelo sulle montagne; l’ottavo dai fantasmi delle notti nebbiose; il nono infine gli avrebbe trasmesso saggezza ed eloquenza quando fosse giunto a colloquio col gigante, glorioso per la lancia, guardiano della dimora di Menglöð. In ultimo Gróa augurò al figlio buona fortuna nel viaggio:
«Le parole della madre
portati via, figliolo, di qui
e fa’ che vivano nel tuo petto;
una buona fortuna
tu avrai nella vita
finché ricorderai le mie parole».
Protetto dagli incantesimi della madre, Svipdagr percorse dunque il sentiero verso la corte di Menglöð e giunse infine alla dimora del popolo dei giganti: essa si ergeva circondata da un bastione di fuoco. Un gigante-guardiano lo vide arrivare: con parole ingiuriose cercò di respingerlo per gli umidi sentieri donde era venuto, subito negandogli ospitalità. Che razza di essere era mai quello che stava lì fuori vagando attorno al fuoco periglioso? Che cosa voleva? Di che andava in cerca? Che voleva sapere l’infelice?
Svipdagr ribatté: che razza di essere era quello che stava lì fuori e non offriva ospitalità ai viandanti? Di certo era vissuto senza guadagnarsi fama alcuna; che fosse lui dunque a tornare a casa sua!
Il guardiano allora rispose e disse di chiamarsi Fjölsviðr, d’essere saggio, ma niente affatto ospitale; poi aggiunse che quel viandante non sarebbe mai entrato nel recinto: se ne andasse dunque come un lupo per la via! Svipdagr replicò che non se ne sarebbe andato, poiché la vista di quella dimora dorata, circondata da recinti splendenti, era una gioia per gli occhi: anzi pensava che avrebbe potuto trovatisi bene. Fjölsviðr dunque domandò da chi fosse nato e di quali genitori fosse figlio. Per celare la sua vera identità il giovane affermò di chiamarsi Vindkaldr e d’essere figlio di Várkaldr, figlio di Fjölkaldr; poi a sua volta domandò chi governasse in quel luogo e avesse possesso del regno, dei beni e delle sale splendenti. Fjölsviðr rispose:
« Menglöð si chiama,
la madre la generò
col figlio di Svafrporinn;
ella qui governa
e ha possesso del regno,
dei beni e delle sale splendenti».
Vindkaldr ancora domandò: come si chiamava il cancello” del quale non s’era mai visto nulla di più terribile fra gli dèi? Fjölsviðr rispose:
«þrymgjöll si chiama,
ed esso fu fatto dai tre
figli di Sólblindi,
una salda catena
terrà qualsiasi viandante
che voglia aprirlo».
Vindkaldr ancora domandò: come si chiamava il recinto del quale non s’era mai visto nulla di più terribile fra gli dèi? Fjölsviðr rispose:
«Gastrópnir si chiama,
e io lo ho costruito
dalle membra di Leirbrimir:
in tal modo lo ho fissato,
che saldo starà,
sempre finché il tempo duri».
Vindkaldr ancora domandò: come si chiamavano i cani guardiani dei quali nulla di più mostruoso aveva mai visto al mondo? Fjölsviðr rispose:
«Gifr si chiama l’uno,
ma l’altro Gerì,
se tu lo vuoi sapere
essi sempre
qui faranno la guardia,
fino a che crollino gli dèi».
Vindkaldr ancora domandò: c’era qualcuno che potesse entrare nella dimora mentre le bestie aggressive dormivano? Fjölsviðr rispose:
«L’alternanza del sonno e della veglia
fu loro assegnata,
da quando fu loro affidata la guardia;
l’uno di notte dorme,
l’altro di giorno,
nessuno entra, se là giunse».
Vindkaldr ancora domandò: non c’era qualche cibo da dar loro per entrare mentre stavano mangiando? Fjölsviðr rispose:
«Due ali arrostite
stanno nel corpo di Viðópnir,
se tu lo vuoi sapere;
è quello l’unico cibo
che si possa dar loro
per entrare mentre mangiano».
Vindkaldr ancora domandò: come si chiamava quell’albero che tutta ricopriva la terra coi rami? Fjölsviðr rispose:
«Mimameiðr si chiama,
ma nessuno sa
da quali radici cresca;
con che si abbatte
ben pochi sanno,
non lo consuma né il fuoco né il ferro».
Vindkaldr ancora domandò: quali frutti dava quell’albero famoso che non consuma il fuoco né il ferro? Fjölsviðr rispose:
«Il suo frutto
si metterà sul fuoco
per le donne malate;
fuori spremeranno
ciò che abbiano dentro,
questo gli è assegnato fra gli uomini».
Vindkaldr ancora domandò: come si chiamava quel gallo che stava appollaiato in alto sull’albero, tutto splendente d’oro? Fjölsviðr rispose:
«Viðópnir si chiama,
e sta luminoso nell’aria
sui rami di Mimameiðr;
con un dolore
immenso opprime,
di Surtr, Sinmara».
Vindkaldr ancora domandò: c’era qualche arma che potesse sprofondare Viðópnir nella dimora di Hel? Fjölsviðr rispose:
«Lævateinn si chiama,
Loptr la fece con le rune
giù oltre Nágrindr;
nello scrigno di ferro
sta presso Sinmara,
nove serrature possenti la tengono».
Vindkaldr ancora domandò: avrebbe potuto tornare a casa chi fosse partito in cerca di quella bacchetta? Fjölsviðr rispose:
«Indietro tornerà
colui che andrà in cerca
e vorrà prendere quella bacchetta,
se porterà ciò
che pochi posseggono
alla dea dell’oro».
Vindkaldr ancora domandò: avevano gli uomini qualche oggetto prezioso che potesse far felice la pallida gigantessa? Fjölsviðr rispose:
«La falce lucente
dovrai portare in uno scrigno,
che si trova nel corpo di Viðópnir,
per darla a Sinmara,
prima che ella si dica disposta
a concedere l’arma per la lotta».
Vindkaldr ancora domandò: come si chiamava quella sala che era circondata dal saldo bastione di fuoco? Fjölsviðr rispose:
«Lyr si chiama,
ed essa a lungo dovrà
all’apice della punta tremare;
di quella dimora splendente
durante il tempo avranno
notizie, pochi fra gli uomini».
Vindkaldr ancora domandò: chi fra i figli degli Asi aveva costruito quella sala che egli vedeva oltre il recinto? Fjölsviðr rispose:
«Uni e Íri,
Óri e Bári,
Varr e Vegdrasill,
Dóri e Úri,
Dellingr, Atvarðr,
Llðskjálfr, Loki».
Vindkaldr ancora domandò: come si chiamava quel monte sul quale vedeva sedere la gloriosa fanciulla? Fjölsviðr rispose:
«Lyfjaberg si chiama,
e a lungo esso è stato
una gioia ai malati e ai feriti;
sana ritorna,
sebbene gravemente malata,
qualsiasi donna se a esso salga».
Vindkaldr ancora domandò: come si chiamavano le fanciulle che concordi sedevano ai piedi di Menglöð? Fjölsviðr rispose:
«Hlif si chiama la prima,
la seconda Hlilfþrasa,
þjóðvarta la terza,
Björt e Bleik,
Blið, Frið,
Eir e Aurboða».
Vindkaldr ancora domandò: erano costoro soccorrevoli a chi offrisse loro sacrifici in caso di bisogno? Fjölsviðr rispose:
«Solerti soccorrono
dovunque gli uomini sacrifichino loro
nel luogo sacro per l’altare;
mai un così grave pericolo
verrà ai figli degli uomini
che esse non li traggano d’impaccio».
Vindkaldr ancora domandò: c’era qualcuno fra gli uomini che potesse dormire fra le dolci braccia di Menglöð? Fjölsviðr rispose:
«Non c’è fra gli uomini
chi possa dormire
fra le dolci braccia di Menglöð,
se non Svipdagr solo;
a lui la fanciulla
luminosa come il sole, in sposa fu promessa».
Vindkaldr allora esclamò:
«Spingi la porta,
spalanca il cancello,
qui puoi vedere Svipdagr;
ma tuttavia va’ a vedere,
se voglia accogliere
Menglöð il mio amore!»
Fjölsviðr allora si rivolse a Menglöð e le disse dell’arrivo di quell’uomo, che ella andasse a vedere l’ospite per il quale i cani facevano festa e la casa era aperta: egli pensava che si trattasse di Svipdagr. Menglöð tuttavia dapprima minacciò: se mentiva sarebbe finito su un’alta forca e corvi sapienti gli avrebbero strappato gli occhi; chi era dunque in realtà quello straniero venuto alla sua dimora da tanto lontano? Da dove giungeva? Da dove aveva iniziato il cammino? Di chi era figlio? Ella voleva sapere la stirpe e il nome come conferma che proprio a lui era stata promessa. Svipdagr rispose:
«Svipdagr mi chiamo,
Sólbjartr mio padre si chiamava,
di là fui spinto per sentieri freddi di vento;
alla parola di Urðr
nessun uomo può opporsi,
quand’anche ciò gli comportasse colpa».
Allora Menglöð accolse Svipdagr senza altre esitazioni: poiché il suo volere si era compiuto, fece seguire al saluto un bacio. Ora la rallegrava la vista dell’amato bene, dopo che a lungo, giorno dopo giorno, sola in Lyfjaberg aveva atteso che il giovane giungesse alla sua dimora. Il desiderio reciproco dell’amore e del piacere era esaudito ed essi sarebbero da allora vissuti insieme per sempre.