Panzerfaust e Panzerschreck
Panzerfaust e Panzerschreck
Durante l’inizio della seconda guerra mondiale ci si rese immediatamente conto della grande duttilità d’utilizzo dei mezzi corazzati, data dalla loro estrema mobilità e dalla superba capacità di sfondamento. Se da una parte però le manovre d’attacco venivano ampiamente facilitate dal possesso di tali mezzi, dall’altra, avendo anche le nazioni nemiche possesso di tali strumenti offensivi, veniva resa necessaria una sostanziale modifica delle strategie difensive. Naturalmente, per qualsiasi stato, fosse la Germania o gli U.S.A., era impensabile potere dotare ogni corpo di fanteria di un’efficace artiglieria anticarro, così si decise di ideare delle armi che potessero essere facilmente trasportate ed utilizzate individualmente da ogni soldato, permettendogli di abbattere, perlomeno dalla piccola distanza, un mezzo corazzato.
E’ a causa di queste problematiche che quasi tutti gli stati protagonisti del secondo conflitto mondiale idearono delle nuove armi assimilabili a dei lanciarazzi portatili: nacquero così i bazooka americani, i panzerfaust ed i panzerschreck tedeschi, i piat inglesi.
Il sistema propulsivo di queste armi era particolare per ognuna di quelle sopra citate ed appositamente studiato per ottimizzarne il funzionamento, ma il principio offensivo si basava su un effetto fisico che era comune a tutte, la cui scoperta si doveva alle ricerche di un fisico americano, Charles Munroe. Questo era costituito dal proiettile a carica cava. Nel 1888 Munroe aveva notato come una carica d’esplosivo poteva aumentare esponenzialmente la sua forza dirompente se veniva fatta detonare in modo che la sua parte anteriore fosse di forma concava (invece che piana od addirittura convessa): in termini più semplici, se la carica era costituita da un “panetto” di forma conica si aveva un effetto detonante esponenzialmente distruttivo nella direzione del vertice del cono. Questo fenomeno, che in onore del fisico che ne aveva formalizzato la natura prese il nome di “effetto Munroe”, venne inizialmente trascurato, ma a causa delle motivazioni prima descritte trovò la sua applicazione ed il suo pieno sviluppo durante la seconda guerra mondiale, quando il continuo aumento della corazzatura dei carri armati rese necessario lo sviluppo di armi sempre più potenti, capaci di sfondarla.
Occorre precisare però che il termine “sfondamento” prima utilizzato è assolutamente erroneo. Il proiettile a carica cava infatti non sfondava la corazza del carro, secondo l’uso abituale del termine, bensì la bucava fondendola. La velocità del proiettile (poche decine di metri al secondo) ed il suo peso (mediamente pari ad un chilo e messo) non permettevano infatti lo sventramento della barriera metallica mediante detonazione: il suo principio di funzionamento era invece molto più complesso e soprattutto raffinato.
Il bersaglio andava colpito da una distanza non troppo eccessiva e da un’angolazione di circa 90°: in questo modo, una volta sparato, il proiettile aderiva mediante lo schiacciamento della sua testata alla corazza del mezzo esattamente come una ventosa, quindi veniva innescato l’effetto Munroe: grazie alla forma della superficie (concava) il calore della carica veniva fatto convergere in un unico punto della corazzatura, la quale fondeva in pochi decimi di secondo. Il metallo fuso incandescente veniva scagliato, tramite il foro, nell’abitacolo del carro, dove la temperatura saliva a svariate centinaia di gradi, causando la morte immediata dei soldati che lo occupavano.
La Germania nazionalsocialista fu il primo stato a puntare sul proiettile a carica cava nel tentativo di fermare i mezzi corazzati nemici e così nacque la prima arma il cui funzionamento era caratterizzato dall’effetto Munroe: il Panzerfaust, il Pugno Corazzato, soprannominato, in ricordo del Faust di Goethe, Gretchen, Margherita. Quest’arma era tanto semplice quanto micidiale: essa infatti era costituita da un tubo al quale veniva applicato, ad un’estremità, un proiettile a forma di due tronchi di cono uniti alla base, al quale era applicata la carica propulsiva necessaria per il suo lancio, che veniva fatta scattare mediante una leva posta sulla parte anteriore del tubo. Quest’arma, assolutamente semplice da costruire ed unica nel suo genere, lanciava i proiettili mediante il principio del cannone senza rinculo: al momento dello sparo una parte del gas di scoppio veniva utilizzata per lanciare il proiettile, mentre un’altra veniva fatta fuoriuscire dal retro, così da generare una spinta capace di bilanciare l’inevitabile contraccolpo, conferendo quindi all’arma una grande stabilità. A causa di questo sistema di bilanciamento i fanti dotati di Panzerfaust erano piuttosto “ingombranti”, dato che a causa della potente fiammate fuoriuscente dalla parte posteriore dell’arma (che poteva raggiungere anche la lunghezza di un metro e mezzo) era necessario porsi ad una notevole distanza da loro.
Vennero costruiti tre modelli di Panzerfaust: il primo era lungo 1,03 m (diametro del tubo da 4,5 cm) e pesava circa 3kg; questo modello era capace di perforare corazzature da 145 mm. Il secondo modello era invece dotato di un diametro maggiorato a 5 cm, pesava circa 6 kg e venne dotato di un rudimentale sistema di mira per le distanze di 30, 60 e 80 m, dalle quali riusciva a perforare corazzature spesse sino ai 200 mm. Il terzo modello infine presentava un tubo lungo 1,15 m (con un diametro da 6 cm): ancora più pesante, poteva perforare corazze da 250 mm e danneggiarle seriamente anche dalla distanza di 150 m. Il lettore tenga a mente che la completa fusione della corazzatura era permessa, per tutti e tre i modelli, da una distanza massima di 25 m dal carro nemico: per usare queste armi erano quindi necessari uno spirito indomito e dei nervi d’acciaio.
Oltremanica gli inglesi misero a punto un loro mezzo individuale anticarro, il Piat (proiettile anticarro per fanteria). Arma piuttosto rudimentale e poco performante, era costituita da un tubo lanciabombe che veniva portato alla spalla. Pesava 1,3 kg circa e permetteva di forare corazzatura dello spessore pari a 100 mm dalla distanze ravvicinatissime.
Quando, nel 1942, sul fronte dell’Africa Settentrionale comparvero i primi bazooka, i tedeschi decisero di approntare un’arma similare. Il bazooka americano era essenzialmente costituito da un tubo che lanciava un proiettile a razzo (quindi non mediante detonazione), la cui carica da lancio veniva accesa elettronicamente. Da una semplice copia dell’arma americana nacque così il Panzerschreck (Orrore del corazzato) tedesco, soprannominato amichevolmente “tubo per stufa”. Questo era lungo 1,7 m e lanciava un proiettile pesante 3,15 kg. Esso era capace di attivare l’effetto Munroe sparando da una distanza massima di 150 m, la quale permetteva un utilizzo assolutamente più tattico e sicuro dell’arma. La potenza del Panzerschreck venne maggiorata sino a produrne un modello di calibro pari a 100 mm, dotato di una portata massima di 400 m. Seppur esente dalla problematica legata alla fiammata di scarico che caratterizzava il Panzerfaust, il Panzerschreck presentava l’incomodo fattore costituito dal fatto che, a causa delle sue ingombranti dimensioni, esso dovesse essere servito da due soldati: uno addetto al caricamento, l’altro al puntamento.
Pasquale Piraino