Il Fuoco: creazione, rigenerazione e distruzione

Dal numero 1/2014 della Rivista Thule Italia

IL FUOCO: CREAZIONE, RIGENERAZIONE E DISTRUZIONE

di Monica Mainardi

Il fuoco rappresenta il sole sulla terra. È luce, calore. È il luogo di scambio tra le potenze sotterranee e celesti, come la colonna di fumo che s’innalza al cielo dagli altari dei nostri padri o il fumo delle candele della attuale devozione. È il fuoco che arde nei templi antichi, luogo di manifestazione della divinità.

Il fuoco è principio creatore dell’universo, che si realizza attraverso la di luce che si oppone alla potenza del caos primordiale fatto di tenebra. Fuoco e acqua sono i due grandi princìpi, attivo e passivo, dell’universo: origine di tutti gli opposti del mondo. Conflittuali, ma necessari alla vita. In tutta la cultura greca, il fuoco rappresenta l’essenza invisibile dell’esistenza, il pneuma, il soffio vitale, fin dalle prime speculazioni dei filosofi presocratici, influenzate dal pensiero religioso iranico.

Le vestali, di Ciro Ferri (1634-1689 – Galleria Spada, Roma)

Le vestali, di Ciro Ferri (1634-1689 – Galleria Spada, Roma)

Il fuoco è l’elemento che scalda e illumina, ma che è in grado anche di portare morte e distruzione. Ecco perché a esso è stata sempre collegata un’interpretazione caratterizzata da forte ambivalenza. Lo si ritrova spesso quale simbolo del focolare domestico, e nella Roma antica ecco Vesta, la dea del focolare domestico venerata in ogni casa e il cui culto consisteva principalmente nel mantenere acceso il fuoco sacro: le sacerdotesse legate al suo ordine, le vergini Vestali, avevano proprio il compito di custodire acceso il fuoco sacro alla dea, all’interno del tempio a lei dedicato. Nel tempio di Vesta, il fuoco perenne accudito dalle Vestali veniva spento e poi riacceso per simboleggiare la fine di un ciclo e l’inizio di uno nuovo. Questo rito era comune a molti popoli di stirpe indoeuropea, come gli Indiani e i Persiani, e rifletteva una concezione arcaica del fuoco come simbolo dell’energia divina che mediante una scintilla ha il potere di suscitare la vita nel mondo. Alla base di questa concezione c’è l’idea del “fuoco nuovo”, che sostiene che tutto quello che inizia deve partire da un fuoco nuovo, nascente, rinnovatore e si deve fondare sulle ceneri di ciò che è vecchio, passato, corrotto. A questa idea si contrappone l’idea del “fuoco perenne”, che afferma invece l’importanza di mantenere sempre vivo il fuoco, perché la vita umana è intimamente legata a esso e quindi non va mai spento, non va mai perduto.

Nel mondo greco-romano, la fiamma nel mondo rappresenta il garante di unità, fedeltà, prosperità, continuità, protezione dello stato, della comunità e della famiglia. Distrugge gli elementi corruttibili della terra rigenerandola e rendendola vicina al mondo degli dèi. La colonna di fumo è il mezzo che accompagna verso l’alto l’essenza spirituale della combustione; e rappresenta la relazione tra immanente e trascendente, la via di comunicazione tra uomo e dio. Questo ruolo di collegamento fa sì che ogni fuoco acceso – focolare domestico, altare, pira funebre – rappresenti il simbolo di unità tra divino e umano.

Ma questo elemento ha pure dei significati assolutamente negativi e distruttori: dal fuoco infernale che brucia le anime dei dannati, al fuoco proveniente dal cielo – magari sotto forma di fulmine – oppure quello che proviene dal centro della terra sotto forma di lava. Perché il fuoco è ambiguo: fiamma celeste del fulmine, luce e calore del sole oppure violenza e attività delle viscere della terra. Il fuoco è il fondamento della vita sociale e civile ma è anche talmente pericoloso da rappresentare l’archetipo primario dell’annientamento. Tutto in lui si dissolve in fumo e cenere. Manifestandosi all’uomo sotto forma di grandi fenomeni tellurici e atmosferici, il fuoco si presta a una serie di speculazioni che danno origine a una complessa mitologia: il fuoco benefico, celeste e culturale, al servizio del cosmo, e il fuoco malefico sotterraneo e distruttivo, al servizio delle forze di dissoluzione e del caos. Le figure divine associate al fuoco si distribuiscono, dunque, secondo queste due direzioni divergenti, entrambe caratterizzate da potere rigenerante. Mentre il fuoco celeste esiste da sempre e non appartiene all’universo dell’uomo, il fuoco ctonio e sotterraneo è posto in relazione con le forze rigenerative della natura e della terra di cui gli Inferi sono il grembo più profondo.

L’inferno musicale, di Hieronymus Bosch

L’inferno musicale, di Hieronymus Bosch

Il fuoco lo ritroviamo con quest’ambivalenza anche nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Esso serve a esprimere la presenza misteriosa di Dio, come nel roveto che arde senza consumarsi che si ritrova davanti Mosè, e attraverso il fuoco delle pire sacrificali con cui l’uomo si mette in contatto con Dio, dimostrandogli il suo desiderio di purificazione e di espiazione. Ma il fuoco è anche un potente arma di distruzione, allorché Jahvé se ne serve lanciandolo dal cielo per incenerire città e peccatori, come a Sodoma e Gomorra. Nel Nuovo Testamento, Cristo annuncia: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso” (Luca 12, 49) per descrivere la sua missione messianica, culminante nella donazione totale della croce. Ed è fiamma lo Spirito Santo che, sotto forma di lingue di fuoco, discende sugli Apostoli nel giorno della Pentecoste. E nel Cantico delle Creature San Francesco d’Assisi proclamerà, successivamente, la sua ammirazione verso questo elemento: «Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale enallumini la nocte; et ello è bello et iocundo et robustoso et forte». Ma diventa anche espressione palpabile e tragica del castigo escatologico: è il fuoco della Geenna – il luogo della perdizione eterna –, è il fuoco dell’inferno. Come dice Matteo infatti nei Vangeli: «Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna». (Mt. 5, 22). E ancora: «Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro». (Mt. 13, 40-42)

La distruzione di Sodoma e Gomorra, di John Martin (1852 – Laing Art Gallery, Newcastle upon Tyne).

La distruzione di Sodoma e Gomorra, di John Martin (1852 – Laing Art Gallery, Newcastle upon Tyne).

Gli antichi greci distinguevano la forza distruttiva del fuoco (aidelon), generalmente associata al dio Ade, dalle sue potenzialità creative, associate a Efesto, il dio fabbro (il Vulcano romano). Eraclito sosteneva che il mondo aveva avuto origine dal fuoco, che intendeva come una forza primigenia che regola la legge degli opposti contrari. È probabile tuttavia che Eraclito utilizzasse l’immagine del fuoco più come metafora per indicare l’eterno divenire del Lògos. Ma è con Empedocle di Agrigento (495-435 a.C.), che il fuoco diventa propriamente uno dei quattro elementi classici della filosofia greca, insieme alla terra, all’aria, e all’acqua. Empedocle li chiamava “radici”. Platone (427-347 a.C.) accoglie nella sua filosofia questa dottrina dei quattro elementi di Empedocle. Nel Timeo, il suo dialogo cosmologico, il solido platonico associato al fuoco è il tetraedro, che è formato da quattro triangoli equilateri. Questo solido rende il fuoco l’elemento con il minor numero di lati, che Platone considerava appropriato alla sua natura, poiché il calore del fuoco si sente forte e lancinante come fosse formato da tanti piccoli tetraedri. Aristotele (384-322 a.C.), fornisce invece un’altra spiegazione per i quattro elementi, basata su coppie complementari. Egli li dispone concentricamente attorno al centro dell’universo, a formare la sfera sublunare. Secondo Aristotele, il fuoco è sia caldo sia secco, e fra le sfere elementali occupa un posto intermedio fra la terra e l’aria. Ai suoi antipodi sta l’acqua.

Fucina di Vulcano, di Giorgio Vasari (1564 circa – Uffizi, Firenze).

Fucina di Vulcano, di Giorgio Vasari (1564 circa – Uffizi, Firenze).

Molto spesso il fuoco è dunque considerato uno dei quattro elementi. Tuttavia, vi sono alcune tradizioni antiche, come per esempio quella celtica – come possiamo ricavare dai testi di Strabone e dai racconti della mitologia irlandese trascritti in epoca medioevale –, in cui gli elementi sono soltanto tre: terra, aria e acqua; il fuoco è infatti considerato azione, energia, trasformazione degli elementi stessi. Un modello tripartito che è assolutamente in sintonia con il pensiero celtico, che vedeva nel numero tre il simbolo della ciclicità e della completezza, della manifestazione del divino nella realtà. Lo stesso pensiero alchemico sarà poi conforme a questo sistema tripartito, essendo il fuoco sostanziale elemento di trasformazione.

Il fuoco è l’agente di relazione naturale tra il microcosmo e il macrocosmo. Il fuoco è un elemento dinamico, in quanto genera trasformazioni: in particolare il fuoco tende a purificare tutte le cose, elevandole ad un livello di perfezione maggiore. L’elemento fuoco è rappresentato dalla figura geometrica di un triangolo equilatero con il vertice verso l’alto, allude quindi a un moto ascendente, di crescita o dilatazione, a un’azione centrifuga. Infatti, il fuoco racchiude in sé il principio maschile, che tutto vivifica, e inciterebbe a un’azione distruttrice, se non fosse moderato dagli altri elementi. Infatti, alla forza ascensionale del fuoco si oppone l’acqua, elemento femminile e passivo, che scorrendo verso il basso va a riempire ogni spazio vuoto e cavo. L’acqua rinsalda quel che il fuoco dilata, la sua azione è dunque centripeta: invece di elevarsi verticalmente come il fuoco, si espande in orizzontale, lenendo la forza distruttrice del fuoco. Unendo il simbolo del fuoco, triangolo con punta in su, e il simbolo dell’acqua, triangolo con punta in giù, si forma una stella con sei raggi (un’esagramma, che è la raffigurazione grafica del Sigillo di Salomone). La stella a sei punte è il simbolo dell’evoluzione e dell’involuzione, dell’eterna unione dell’energia con la materia, il cui prodotto è il ritmo, l’armonia. L’energia che scaturisce dal fuoco è il principio stesso della vita. Per questo motivo la morte è simbolicamente percepita come l’estinzione del fuoco; e da qui i riti di conservazione del fuoco.

Il laboratorio dell’alchimista, di Giovanni Stradano (1570 – Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze: l’uomo a lavoro in basso a destra è Francesco I de’ Medici).

Il laboratorio dell’alchimista, di Giovanni Stradano (1570 – Studiolo di Francesco I, Palazzo Vecchio, Firenze: l’uomo a lavoro in basso a destra è Francesco I de’ Medici).

La maggior parte degli aspetti del simbolismo del fuoco sono sintetizzati nella dottrina indù, che gli riconosce un’importanza fondamentale. Il fuoco è il simbolo divino essenziale del zoroastrismo e, inoltre, la custodia del fuoco sacro si estende dall’antica Roma fino ad Angkor. Il simbolo del fuoco purificatore e rigeneratore si sviluppa dall’Occidente al Giappone; la liturgia cattolica del “fuoco nuovo” viene celebrata dal cristianesimo nella notte di Pasqua, mentre quella dello Shintô coincide con il rinnovarsi dell’anno. Il ruolo del fabbro – il “dominatore del fuoco” – introduce quello di un suo stretto parente, l’alchimista, che crea l’immortalità sul fuoco del fornello, oppure, in Cina, sul fuoco del crogiolo interiore, che corrisponde all’incirca al plesso solare e al “manipura-chakra”, posto dallo yoga sotto il segno del Fuoco. I taoisti, d’altro canto, entrano nel fuoco per liberarsi da ogni condizionamento umano. Essi penetrano nel fuoco senza bruciarsi, il che consente di chiamare la pioggia (la benedizione celeste), ma che evoca anche il “fuoco che non brucia” dell’ermetismo occidentale. Ai fuochi purificatori bisogna aggiungere infine sia quello dell’antica Cina, sia quello che, nelle intronizzazioni rituali, accompagnava il bagno e la fumigazione, sia quello delle ordalie (i “giudizi divini”).

Al fuoco artificiale dell’induismo, il Buddha sostituisce il fuoco interiore, che è nello stesso tempo conoscenza, illuminazione e distruzione dell’involucro esterno. Le Upanishad assicurano, parallelamente, che bruciare esteriormente non è bruciare; da qui derivano i simboli della Kundalini che brucia nello yoga indù e del “fuoco interiore” nel tantrismo tibetano. Mentre nelle tradizioni celtiche, ritroviamo le “feste del fuoco” e gli innumerevoli riti di purificazione per mezzo del fuoco, generalmente riti di passaggio, che ricorrono in continuazione delle culture agrarie dell’antichità e del recente passato.

Il controllo del fuoco

Certo è che al fuoco è legata la storia stessa dell’umanità. La scoperta del fuoco e il suo controllo da parte dei primi uomini – avvenuta durante il Paleolitico Inferiore, un periodo storico che va da circa 2,5 milioni a circa 120.000 di anni fa – rappresenta una svolta epocale nell’evoluzione umana. Il più antico documento dell’uso del fuoco proviene da Chou-kou tien, un sito archeologico nei pressi di Pechino, in Cina, e risale a circa 600.000 fa, ma è probabile che la domesticazione abbia avuto inizio molto prima, e in varie località della Terra. Imparando a controllare il fuoco per la prima volta, l’uomo divenne capace di dominare una delle grandi forze della natura. Il fuoco, e il suo controllo, permise di cucinare i cibi, facendo quindi assumere più proteine e carboidrati e migliorando la nutrizione; di poter lavorare o di spostarsi anche nelle ore notturne; e di potersi difendere dai predatori. Al fuoco è legato poi il successivo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento, poiché è stato anche con il suo ausilio che l’uomo ha iniziato a privilegiare gli stanziamenti fissi, passando da semplice e improvvisato raccoglitore allo stadio più organizzato di coltivatore. E il fuoco è stato il protagonista di un’altra grande rivoluzione culturale: grazie a esso si è sviluppata l’arte della metallurgia, che ha permesso all’uomo di plasmare la materia e di farla solidificare nelle forme desiderate, creando attrezzi, armi, oggetti per il culto.

La capacità di accendere un fuoco per riscaldarsi, proteggersi, cibarsi, evolversi nella tecnica rappresentò quindi la differenza fra vita e morte. Il fuoco era la rappresentazione terrena del sole, il grande fuoco celeste che permetteva la vita sulla terra, la illuminava, la rendeva fertile. Era una potente forza magica e spirituale. Per tutto ciò, a questo elemento venne assegnato dai nostri progenitori un ruolo di primissimo piano, fino a sacralizzarlo.

Il fabbro, “dominatore del fuoco”

Coloro che riuscivano a “dominare” l’elemento erano ammantati di una sorta di aura magica. Basti pensare alla figura del fabbro e forgiatore delle culture arcaiche: con l’aiuto del fuoco, egli riusciva a estrarre i metalli dai minerali grazie a metodi di fusione che padroneggiava perfettamente. Il fabbro, rinchiuso nella sua fucina, modella i metalli a suo piacimento tramite il calore del fuoco. Il fabbro crea e ri-crea. In tal modo egli divenne il “sacerdote” di una religione arcaica che è poi confluita nello sciamanesimo. In moltissime tradizioni sciamaniche, il fuoco è l’elemento di trasformazione per eccellenza, simbolo dell’iniziazione. L’iniziato si sottopone alla morte e purificazione iniziatica attraverso il fuoco, va incontro al processo di sublimazione dell’anima attraverso il quale la rozza pietra viene trasformata in oro purissimo, egli trova la “pietra filosofale”.

La forgia di Vulcano, di Luca Giordano (1561 – Hermitage, San Pietroburgo).

La forgia di Vulcano, di Luca Giordano (1561 – Hermitage, San Pietroburgo).

È un fabbro Efesto, il dio greco figlio di Zeus ed Era, e fratello di Ares (anche se nella Teogonia di Esiodo si dice che Era li avesse generati da sola, gelosa del fatto che suo marito Zeus avesse generato da solo Atena). Storpio e zoppo, Efesto sposa la bellissima dea Afrodite, che lo tradisce con il fratello Ares, dio della guerra; ma dalla sua fucina escono le più mirabili e splendide opere in ferro e in bronzo che egli ha costruito per sé e per gli altri dèi dell’Olimpo: l’egida e lo scettro di Giove, il tridente di Poseidone, lo scudo di Eracle, lo scettro di Agamennone, le armi di Achille, e così via. Nella figura di Efesto-Vulcano convergono diverse tradizioni relative al potere del fuoco sotterraneo. Vulcano è il dio del fuoco che divora e annienta e che, nella sua ambivalenza, contiene in sé espiazione e purificazione, come è evidente dalle offerte che, nella cultura romana, gli vengono fatte delle armi dei vinti. Egli è divinità maschile distruttrice e attiva – quell’attività tipica dei fabbri e dei costruttori –, in opposizione a Vesta, divinità benevola del fuoco passivo femminile, della comunità, degli antenati e del focolare domestico.

Ed è un fabbro Loki, il dio norreno del vento e del fuoco, che viene anche detto il «fabbro di mali» perché, pur possedendo la conoscenza della forza creatrice e ordinatrice del mondo, ne perverte l’uso e lo scopo. Figlio del gigante Farbauti e di Laufey (o di Nal), egli è in assoluto la figura più ambivalente nel pantheon norreno: in taluni miti è compagno di Odino e Thor (e spesso gli dèi si cavano d’impaccio grazie alla sua grande astuzia), in altri è colui che attenta all’ordine cosmico, ingannatore, attaccabrighe, maligno, temibile e camaleontico.

Abilissimi fabbri e orafi sono, infine, anche i Nani delle saghe nordiche. Essi conoscono i segreti dei metalli e riescono a lavorarli con impareggiabile maestria. Creano oggetti belli e preziosi, con caratteristiche che nessun altro manufatto può eguagliare. Fra gli altri, creano il laccio Gleipnir, capace di tener legato il feroce lupo Fenrir, o l’infallibile lancia Gungnir di Odino e lame capaci di tagliare gli altri metalli con facilità. Ma queste eccellenti capacità tecniche non sono accompagnate da princìpi etici altrettanto elevati. Nelle leggende scandinave, i Nani sono infatti spesso pronti al tradimento, subdoli e malevoli, oppure vendicativi. Per esempio nella Saga di Hervör (risalente al XIII secolo) si narra che essi forgiarono per re Siglami una spada capace di tagliare il ferro come tessuto, in grado di penetrare la roccia, ma che avrebbe ucciso un uomo ogni volta che fosse stata sguainata, che avrebbe fatto compiere a chi la impugnava tre azioni malvagie e che, alla fine, reclamò la vita proprio di re Siglami.

Il fabbro è colui che per mezzo del fuoco – sul quale riesce a dominare – riesce a “cambiare la Natura”. La sua ovvia evoluzione sarà nella figura dell’alchimista, colui che crede nella possibilità di cambiare la Natura, nella trasmutazione dei metalli.

Dice Mircea Eliade, parlando di fabbri e alchimisti: «A livelli differenti, il fuoco, la fiamma, la luce abbagliante, il calore interiore esprimono sempre esperienze spirituali, l’incorporazione del sacro, la prossimità al Dio. Fonditori, fabbri e alchimisti sono tutti “signori del Fuoco”, come tutti e tre, assecondando l’opera della Natura, precipitano il ritmo del Tempo e, in definitiva si sostituiscono a esso. Senza dubbio, non tutti gli alchimisti ne erano coscienti; ma poco importa: l’essenziale è che la loro opera, la trasmutazione, implicava, sotto una qualunque forma, l’abolizione del Tempo. Come dice un personaggio di Ben Jonson, “il piombo e gli altri metalli sarebbero oro se avessero avuto il tempo di diventarlo”. E un altro alchimista aggiunge: “Ed è ciò che realizza la nostra arte.” Ma, convinti di lavorare con la partecipazione di Dio, gli alchimisti consideravano la loro opera come un perfezionamento della Natura tollerato, se non incoraggiato, da Dio. Lontanissimi dall’ideologia degli antichi fabbri, essi conservavano, tuttavia, il medesimo atteggiamento nei confronti della Natura. Per il minatore delle culture arcaiche, così come per l’alchimista occidentale, la Natura è una ierofania: essa non è soltanto “vivente”, è anche divina, o almeno ha una dimensione divina. È d’altronde grazie a questa sacralità della Natura – rivelata nell’aspetto “sottile” delle sostanze – che l’alchimista riteneva di poter ottenere sia la Pietra Filosofale, agente di trasmutazione, che l’Elisir dell’immortalità».

Il furto del fuoco: Prometeo

Prometheus, di Arnold Böcklin (1882 – Collezione Barilla, Parma).

Prometheus, di Arnold Böcklin (1882 – Collezione Barilla, Parma).

Possedere il fuoco, nelle varie tradizioni mitologiche e religiose, ha sempre corrisposto a possedere un bene divino, un patrimonio riservato soltanto a coloro che dimorano in cielo. E allorché quel bene è giunto agli uomini, ciò è stato determinato o da un dono portato come premio, o perché rubato agli dei. Emblematica in questo senso è la storia di Prometeo, personaggio mitologico universalmente noto per il furto del fuoco a Zeus e che nella storia della cultura occidentale è rimasto il simbolo di ribellione e della sfida alle autorità e alle imposizioni; così anche come metafora del pensiero e archetipo di un sapere slegato dai vincoli del mito dell’ideologia. Secondo il mito, Prometeo era il più intelligente di tutti i Titani, figlio di Giapeto e di Climene. Aveva assistito alla nascita di Atena, dea della sapienza, dalla testa di Zeus, e la dea stessa gli aveva insegnato l’architettura, l’astronomia, la matematica, la medicina, l’arte di lavorare i metalli, l’arte della navigazione. Lo stesso Zeus, per la stima che riponeva in lui, gli aveva dato l’incarico di forgiare l’uomo, che modellò dal fango e che animò con il fuoco divino. Ma Prometeo non poteva accettare che gli uomini conducessero una vita così infelice e meschina, e pensò quindi di dar loro il prezioso dono del fuoco che li avrebbe resi i padroni indiscussi della Terra. Con il fuoco gli uomini avrebbero potuto scaldarsi d’inverno, cuocere la carne, tenere lontane le fiere, illuminare le caverne e la notte; avrebbero potuto fondere i metalli e darsi così attrezzi per lavorare la terra ed armi per difendersi e cacciare. Ma esso apparteneva agli Dei che ne erano assai gelosi ed era ben protetto nelle viscere della Terra nell’officina di Efesto, il dio del fuoco, che fabbricava, con l’aiuto dei Ciclopi, i fulmini di Zeus. Così, Prometeo si recò da Atena affinché lo facesse entrare di notte nell’Olimpo e, appena giunto, accese una torcia dal carro di Elio e si dileguò senza essere visto. Secondo altre leggende, egli ritrovò la torcia nella fucina di Efesto, ne rubò qualche favilla e la portò agli uomini. Il padre degli dèi, infuriato per quell’affronto, ordinò al fabbro divino Efesto di forgiare una catena indistruttibile con la quale Prometeo fu legato a una montagna nel Caucaso, dove un’aquila (o un avvoltoio, a seconda delle versioni) gli dilaniava il fegato, che però si riformava continuamente. Il fuoco era così tornato nell’Olimpo. Però, successivamente, gli uomini riuscirono comunque ad impossessarsene.

Il mito di Prometeo rinchiude in sé simbolicamente tutta l’ambivalenza della grande conquista connessa al dominio del fuoco: crea e (rubando) distrugge. Il fuoco utile del calore e della cattura del cibo, del progresso umano e dei rapporti sociale è anche il fuoco dell’annientamento sociale, della guerra, della devastazione. Più di ogni altro elemento naturale il fuoco appare come il simbolo della contraddizione umana: esso è segno al tempo stesso di civiltà e di anti-civiltà.

Tradizione induista: il dio del fuoco Agni

Nella tradizione induista, il dio del fuoco è Agni (termine che in sanscrito indica “fuoco”, e che è affine al latino “ignis”). Agni è il più importante degli dèi terrestri, secondo per importanza fra gli dèi dell’antica mitologia vedica solo a Indra! I Veda riconoscono il fuoco ovunque nell’universo e Agni è la luce, il Sole, il fuoco terrestre, il fulmine, e prende altre molteplici forme nascoste e manifeste. Nel Rig Veda è noto con l’epiteto di Vaishvanara: “colui che appartiene a tutti gli uomini”. Agni è il Dio mediatore, colui che trasforma i doni dell’uomo, attraverso il sacrificio, in offerta agli dèi. Come personificazione divina del fuoco rituale del sacrificio, Agni è la bocca degli dèi, il tramite che porta loro l’offerta; è il mediatore fra l’ordine umano e quello divino. Il suo carattere di mediatore è dovuto alla triplice essenza: cosmica, divina e umana; e media in quanto partecipe di ogni dimensione. Nonostante presenti due volti – uno benevolo e uno severo – grazie alla sua funzione di mediatore è molto amato e venerato perché intercede per l’uomo presso tutti gli altri dèi.

Agni catalizza il passaggio tra luce e buio, notte e giorno, primavera, estate, autunno e inverno. Egli è Surya, il Sole, calore ed essenza della vita, ed è Tapas, l’ardore creativo la luce della conoscenza, il processo di purificazione che porta al disvelamento dell’essere.

Agni è l’elemento di purificazione, è ciò che bruciando le impurità eleva l’uomo dalla mortalità all’immortalità. Ed è il componente fondamentale della vita; l’ordine nel creato viene mantenuto proprio grazie alla sua capacità di catalizzare la conversione di una cosa nell’altra: il mondo per come noi lo conosciamo, in tutta la sua multiforme varietà, è tale grazie all’azione di Agni.

Nella tradizione induista il fuoco è dunque considerato il mezzo della creazione ed è anche il mezzo che ci consente di mantenere l’ordine nella creazione. È una sostanza sacra, un elemento di unione fra il mondo visibile e quello invisibile, un’energia di trasformazione della materia. Il culto del fuoco è uno dei motivi dominanti nelle scritture dei Veda. Il sacrificio a esso è visto come un rito magico, durante il quale vengono fatte delle offerte agli Dei.

Il fuoco è luce e quando la luce arriva durante la meditazione, scende dall’alto e accende dal di sotto il fuoco della Kundalini. La sostanza che si libera attraverso questo processo arriva al corpo e lo invade, e in codesta maniera avviene l’unione Dio-uomo, cielo-terra.

Nella tradizione induista, Garhpatya è il nome del fuoco domestico, il fuoco sacrificale della famiglia che si trasmette di padre in figlio, e che costituisce un profondo legame fra le varie generazioni e stabilisce il rapporto con il Divino. Mantenere il Garhpatya costantemente acceso è il dovere religioso di ogni capofamiglia, poiché in mancanza di questo fuoco, è preclusa la celebrazione dei riti purificatori, in occasioni come la nascita, il matrimonio, la morte. Il fuoco conferisce sacralità a tutti i principali eventi della vita umana.

Il fuoco e lo zoroastrismo

Il fuoco occupa un posto di primissimo piano anche nello zoroastrismo, la religione e filosofia basata sugli insegnamenti del profeta Zarathuštra (o Zoroastro) che venne fondata prima del VI secolo a.C. nell’antica Persia e il cui testo sacro è rappresentato dall’Avesta. In questa religione esso rappresenta l’energia del creatore. Ma ha anche un ruolo di mediazione tra gli uomini e il mondo divino: esso è vicino al dio supremo Ahura Mazda – il nome dato all’unico Dio, creatore del mondo sensibile e di quello sovrasensibile –, al punto tale che viene chiamato “simile a te” e anche “figlio”. I poteri elargiti dal fuoco, da questa icona crepitante di Ahura Mazda, riguardano molteplici benefici di energia vitale, di calore e di luce che ha il potere di istruire e che concede un potere duplice: è benefico per i giusti, ma malefico per gli empi, secondo una prospettiva dualistica che è una costante di tutta la cultura zoroastriana.

La preminenza del fuoco all’interno del pensiero zoroastriano è dimostrata anche dalle opere letterarie di osservatori esterni, come per esempio quelle di Erodoto, che racconta che i Persiani sacrificano sulle cime delle montagne per rendere il culto al fuoco, alla terra, all’acqua, al sole e al vento: un particolare che rivela la sacralità di ogni elemento, e la cura devota che ognuno di essi riceve nelle prescrizioni religiose e nelle osservanze che obbligano i fedeli a non contaminarli. E le fonti classiche sono utili anche per constatare il rispetto tributato in primis al fuoco e all’acqua, due degli elementi centrali nella pratica rituale zoroastriana, e anche nelle moderne credenze degli zoroastriani dell’India e dell’Iran. La riverenza concessa al fuoco è tale da costringere i Magi a indossare dei bavagli per non contaminarlo con il respiro.

La parte principale e più caratteristica del culto zoroastriano è il culto del fuoco, che viene effettuato nei “templi del fuoco” (i più antichi resti di uno di questi templi del fuoco sono stati ritrovati sul Monte Khajeh, nei pressi del Lago Hamun, nel Sistan e sono stati temporaneamente datati tra il III e il IV secolo a.C. Il tempio fu ricostruito durante l’epoca dei parti, tra il 250 a.C. e il 226 d.C., e venne ingrandito nel periodo sasanide, tra il 226 e il 650 d.C.). Un fuoco perenne arde sopra un altare, originariamente situato all’aperto e, successivamente, in un’apposita “stanza del fuoco” (?dar?n) che fa parte di un tempio. Negli altri locali del tempio si svolgono varie cerimonie del culto, come la presentazione del “barsom”, che è un fascetto di ramoscelli staccati da alberi diversi, la preparazione dell’“haoma”, una sorta di bevanda inebriante che si estrae da una particolare pianta, la preparazione dell’acqua santa, nonché delle offerte di carne e di focacce, ecc. Nella stanza del fuoco, all’interno di un bacino di metallo pieno di cenere, sta una pietra quadrata sulla quale è alimentato il fuoco, con legna purificata e profumata. In questa sorta di “sancta sanctorum” il sacerdote entra cinque volte al giorno per attizzare il fuoco: deve servirsi di molle e di palette, evitando di toccare la fiamma con le mani; deve tenere una benda davanti alla bocca, per impedire che il fuoco sia contaminato dal fiato. L’idea della purità e della purificazione domina l’intero culto zoroastriano. Il fuoco è il grande purificatore, il più potente dei mezzi catartici. Il fuoco deve essere preservato da ogni contatto impuro; perciò bisogna evitare, per esempio, che vi trabocchi il contenuto di una pentola, o che vengano a cadervi gli escrementi di un uccello che può essersi cibato di una carogna. Ma, soprattutto, bisogna tener lontano dal fuoco l’impurità emanante dalla morte: quando qualcuno muore, bisogna quindi portar via subito il fuoco dalla casa. Questa è la ragione per cui i seguaci di Zarathuštra non praticano la cremazione.

Il fuoco purificatore e rigeneratore

L’uso di compiere riti legati al fuoco si riscontra nelle tradizioni di moltissimi popoli. A esso, che è considerato elemento tipicamente maschile – in contrapposizione all’acqua, elemento femminile –, vengono collegate capacità di purificazione – il che lo riavvicina all’acqua. Spesso ci si purificava camminando tra le fiamme a piedi nudi (un rituale che ancora oggi viene seguito in Tibet). Nei riti di purificazione con il fuoco, una delle sostanze più utilizzate era lo zolfo, soprattutto per gli ambienti, per scacciare i demoni (da qui l’usanza di appendere collane di aglio, che contiene molto zolfo, che servivano a scacciare i vampiri). Un altro rito – comune anche ai giorni nostri – è la purificazione degli ambienti bruciando resine e erbe aromatiche, come gli incensi che diffondono il loro profumo. Esiste poi un rito che è la sintesi dei due tipi di purificazione – quella tramite il fuoco e quella tramite l’acqua – che è diffuso un po’ in tutto il mondo, conosciuto dagli Sciiti come dai popoli scandinavi (dove viene tutt’ora mantenuto tramite l’uso della sauna), dalle etnie di ceppo turco, presso i Caucasici e gli Asiatici, ai Giapponesi e ai Nativi Americani con la loro “capanna del sudore”: fuoco e acqua unite insieme a creare un vapore che purifica colui che vi si immerge.

Il fuoco, come l’acqua, rappresenta un elemento di trasformazione da una condizione all’altra. La presenza del fuoco – nei riti di passaggio come nelle cerimonie che accompagnano la morte e la nascita, reale o simbolica – assume tale significato. Non a caso il fuoco e l’acqua ricorrono come elementi fondanti di molte rappresentazioni dell’Aldilà e dei miti di rigenerazione cosmica. Il tema espresso da Eraclito “il fuoco verrà e giudicherà tutte le cose” si ripropone in ogni epoca o dimensione culturale: nel pensiero greco così come nel mito germanico, nell’Apocalisse così come nel pensiero religioso islamico. Fin dalle origini il fuoco è stato assimilato alla vita e il calore che il corpo perde con la morte è posto in stretta relazione con l’esistenza di un fuoco interiore: per simboleggiare la morte nella cultura europea, infatti, spesso si fa riferimento a una fiamma che si spegne. Nel contesto del fuoco, invece, la morte non è morte. È una rigenerazione cosmica, un ritorno alla vita. Il rituale dell’incenerizione in occidente, fin dal Paleolitico, si collega strettamente a questa essenza spirituale ignea, insita nel corpo umano ed espressione della sua immortalità.

I rituali con il fuoco

Il fuoco come elemento trasformatore, rigeneratore e propiziatore è presente in numerose tradizioni magico-religiose dei popoli occidentali antichi. Per esempio, durante l’inverno, nei mesi più freddi come gennaio e febbraio in molte località ancora oggi si usa accendere fuochi e falò nei quali vengono a volte gettate cose vecchie o bigliettini con desideri. Da una parte ecco il ruolo purificatore del fuoco, che brucia il vecchio e tutto ciò che deve essere abbandonato. Contemporaneamente, emerge il valore trasformatore del fuoco: nel falò sono gettati desideri che si spera possano realizzarsi tramite l’azione trasformatrice e catalizzatrice del fuoco.

Spesso nei falò accesi nelle campagne vivevano gettati fantocci di grano che rappresentavano l’anno vecchio, il vecchio raccolto, la “vecia”, una bambola a forma di vecchina che riproduceva la dea della fertilità e lo spirito stesso del grano. Ecco allora il valore propiziatorio del fuoco.

Inoltre, da sempre, grandi e piccoli roghi vengono accesi per allontanare le tenebre e il freddo, per difendere dal male e dalle malattie, attribuendo una funzione anche apotropaica al fuoco.

La notte del Solstizio d’inverno, quando le giornate diventano più brevi, la tradizione occidentale europea ci narra che venivano accesi fuochi e falò per sostenere propiziare la rinascita del sole; e si celebravano riti per assicurare la rigenerazione del sole. Presso i Celti era in uso un rito in cui le donne attendevano, immerse nell’oscurità, l’arrivo della luce-candela portata dagli uomini con la quale veniva acceso il fuoco, per poi festeggiare tutti insieme la luce intorno al fuoco. Vegliando l’intera notte il ritorno dell’astro.

E in occasione del Solstizio d’estate era invece costume accendere fuochi nei campi per celebrare il massimo splendore del sole, per ringraziare per il raccolto maturo e propiziare quelli a venire. I contadini si posizionavano principalmente su dossi o in cima alle colline, e accendevano grandi falò in onore del sole, per propiziarsene la benevolenza e rallentarne idealmente la discesa; spesso con le fiamme di questi falò venivano incendiate delle ruote di fascine, che venivano fatte precipitare lungo i pendii, accompagnate da grida e canti. Come già detto sopra, i falò avevano anche funzione purificatrice: per questo vi si gettavano dentro cose vecchie, o marce, perché il fumo che ne scaturiva tenesse lontani spiriti maligni e streghe (si riteneva infatti che in quella notte le streghe si riunissero e scorrazzassero per le campagne, alla ricerca di erbe!). In alcuni casi si bruciava un pupazzo, così da bruciare in effige la malasorte e le avversità. Inoltre si faceva passare il bestiame tra il fumo dei falò, in modo da togliere le malattie e proteggerlo sia da queste sia da chiunque vi potesse gettare fatture e malie.

Le “feste del fuoco” celtiche

Nella tradizione celtico-gaelica, vi erano quattro “feste del fuoco”: quattro feste che celebravano il passaggio da una stagione all’altra e che erano così chiamate perché l’accensione rituale di fuochi e falò ne costituivano una caratteristica essenziale. Esse erano: Samhain, che cadeva la notte del 31 ottobre ed era la festa dei morti e segnava l’inizio dell’inverno; Imbolc che cadeva il 31 gennaio e significava letteralmente “in latte”, in quanto corrispondeva al periodo in cui iniziava la produzione di latte delle pecore e delle mucche; Beltane, che cadeva il 30 aprile ed era la festa della primavera, e si celebrava solitamente su alture e colline, in luoghi più “vicini al cielo”; Lughnasadh (chiamata anche Lammas dai sassoni), che cadeva il 1° agosto e segnava l’inizio della stagione dei raccolti.

Samhain segnava il passaggio alle tenebre e al gelo dell’inverno. Samhain segnava il capodanno ed era il tempo quando la notte era più lunga del giorno, fredda e buia. I rituali iniziavano con lo spegnimento di tutti i fuochi, che venivano poi riaccesi a partire dal fuoco acceso dall’Eildeir dei druidi – ossia il “primo tra pares” dei druidi – e tenuti accessi tutto l’anno: questo spegnimento dei focolari rappresentava la morte simbolica dell’anno vecchio e l’ingresso nella metà oscura dell’anno, in cui il sole perdeva gradualmente potenza. Il fuoco rituale serviva per richiamare la luce del sole, per propiziarne la rinascita al solstizio d’inverno. Samhain era il tempo quando le porte tra questo mondo e il mondo ultraterreno si aprivano e gli spiriti dei morti (e a volte anche i mortali) potevano passare liberamente da un mondo all’altro. Era consuetudine lasciare del cibo e delle bevande davanti alle abitazioni per placare le anime dei defunti. In alcune regioni, in particolare in Scozia, i giovani uomini percorrevano i confini delle fattorie, dopo il tramonto, tenendo in mano delle torce fiammeggianti per proteggere le famiglie dalle Fate e dalle forze malevole che erano libere di camminare sulla terra quella notte. Samhain era per i druidi il momento in cui si poteva più facilmente prevedere il futuro.

Imbolc segnava invece la graduale riemersione della natura dal gelo dell’inverno. Dato che la corrispondeva alla produzione di latte delle pecore e delle mucche, e poiché il latte era basilare per l’economia celtica, Imbolc era una grande festa. La tradizione voleva che si facessero passare i primi agnelli nati in cerchi infuocati, e le donne si cospargevano le parti intime con le ceneri rimaste, credendo che aiutasse le gravidanze: per questo Imbolc veniva chiamata la “festa della fertilità” e i figli concepiti in quel periodo erano detti “figli del fuoco”. Durante i rituali di Imbolc era consuetudine versare latte per terra, una piccola offerta e per propiziare il ritorno della fertilità e generosità della terra. In questa ricorrenza, il fuoco era però considerato sotto il suo aspetto di luce: questo è, infatti, il periodo della luce crescente. Gli antichi Celti celebravano in maniera adeguata questo tempo di risveglio della Natura. Non vi erano grandi celebrazioni tribali in questo buio e freddo periodo dell’anno, tuttavia le donne dei villaggi si radunavano per celebrare insieme la Dea della Luce. Ancora oggi conserviamo un retaggio di questa tradizione nella festa della Candelora, che cade ai primi di febbraio e durante la quale vengono benedette e accese le candele sacre.

Beltane, era dedicata al dio Belenos, il dio cornuto, impersonato talvolta da un “re d’estate” che moriva, per poi rinascere, recuperando così il suo ruolo di consorte della dea e la fecondava (la Dea solitamente era rappresentata da una sacerdotessa), dando inizio alla propria rinascita. Beltane, che letteralmente significa “splendente” o “fuoco brillante”, preannunciava l’arrivo dell’ Estate vera e propria. Si credeva che la rugiada del mattino di Beltane facesse fiorire la bellezza di una donna per tutto l’anno. Alla vigilia di Beltane i druidi preparavano due grandi falò con i nove legni sacri. Il bestiame veniva ritualmente spinto fra i due fuochi, per purificarlo e proteggerlo per il resto dell’anno, per favorirne la riproduzione e allontanarne le malattie. Poiché il fuoco è anche simbolo della forza vitale, del cuore e della capacità procreativa. Tanto che un’altra tradizione contadina, diffusa in gran parte dell’Europa, voleva che, nei mesi estivi, venissero accesi nei campi fuochi per la benedizione e la celebrazione del raccolto, e che le giovani coppie di sposi – o le giovani donne – saltassero sopra questi fuochi per favorire la fertilità dei campi e di loro stessi. I fuochi ovviamente simboleggiavano il ritorno della terra alla vita e alla fecondità .

I festeggiamenti includevano scherzi e divertimenti in giro per le campagne, balli intorno all’Albero di Maggio (una sorta di albero della cuccagna al quale venivano appesi cibi e altre leccornie), ed era consuetudine, per gli innamorati, trascorrere la notte insieme nelle foreste. Moltissimi erano i cosiddetti “figli di Beltane”, nati proprio dai rapporti avuti in questa magica notte. I giovani saltavano sopra il fuoco per propiziarsi la fortuna nella ricerca della sposa o dello sposo, i viaggiatori saltavano il fuoco per assicurarsi un viaggio sicuro e le donne incinte per assicurarsi un parto facile. Si usava anche tagliare rami da un albero di biancospino per decorare l’esterno delle case. I fuochi di Beltane rappresentavano l’aumentato potere del sole nei cieli: iniziava la calda stagione estiva, la stagione del raccolto e del massimo splendore del sole. Beltane, e la sua controparte Samhain, dividevano l’anno nelle sue due stagioni primarie, Inverno ed Estate.

A Lughnasadh tutti i riti miravano ad assicurare una stagione di frutti generosi, in quanto un raccolto abbondante assicurava la sopravvivenza della tribù durante i freddi e sterili mesi invernali. Si praticava anche la raccolta dei mirtilli a scopo divinatorio: se i mirtilli erano abbondanti, si riteneva che il raccolto sarebbe stato più che sufficiente. All’alba della vigilia di Lughnasadh si costruivano piccole capanne coperte di fiori, possibilmente vicino a corsi d’acqua, dove gli innamorati dormivano insieme la notte del 31 Luglio. Durante questa festa si onoravano Lugh, il dio associato sia con il Sole sia con la fertilità agricola, e Arianrhod, la dea della Luna e della morte che presiede al ciclo dell’anno (il suo nome significa letteralmente “ruota d’argento” e stava a rappresentare la ciclicità della vita); e in onore di queste due divinità si tenevano gare di destrezza sportiva.

Le celebrazioni agricole pagane primaverili sopravvissero intatte fino all’arrivo del cristianesimo in Irlanda, per poi continuare in veste di celebrazioni cristiane. Si racconta che San Patrizio, al fine di scoraggiare le celebrazioni pagane, accese nel giorno di Beltane un grande “fuoco pasquale” sulla collina di Tara – dove, secondo la leggenda, vi era l’ingresso del mondo oltretomba, sede di tutti i dèi, e dove era posta la residenza del Re Supremo irlandese (“Ard-Rí na hÉireann”): su questa collina colui che doveva diventare re doveva dare prova di essere stato scelto dagli dèi, “volando” al disopra della “Pietra del Destino” (la “Lia Fáil”), il mitico menhir senza il quale l’Irlanda sprofonderebbe. In codesto modo san Patrizio violò la legge secondo la quale nessun fuoco poteva essere acceso prima di quello sacro preparato dai druidi. E ancora oggi il parroco della cittadina di Slane accende a Pasqua un falò su quella stessa collina.

Sempre in Irlanda, nel monastero di Kildare, fino al 1600 bruciò un fuoco sacro perpetuo alimentato e curato da 19 monache, la cui figura rammenta molto quella delle Vestali romane. Si dice che il sito in cui sorse il monastero fosse un antico tempio pagano dedicato a Brighid, la dea celtica del fuoco sacro dell’ispirazione, della guarigione e della creazione che veniva celebrata a Imbolc, nel mese di febbraio. La tradizione di un fuoco sacro custodito da vergini è un tema ricorrente in molte mitologie e spesso il fuoco è associato al calderone, precursore del Santo Graal e simbolo universale del ventre della Grande Madre della vita.

Gli animali del fuoco

E al fuoco sono associati anche alcuni animali e alcune creature fantastiche, che rimandano simbolicamente all’iniziazione e alla trasformazione.

Il cigno, animale sacro a Brighid, la dea dal Triplice Volto: dea del Fuoco sacro e delle Acque, Signora dei Bardi, che, si narra, indossassero mantelli fatti con piume di cigno. Ritenuto psicopompo e guardiano dell’Aldilà, esso è associato tanto all’acqua quanto al fuoco: con le sue candide piume è simbolo sia della purificazione sia della trasformazione, in quanto appena nasce non è altro che un “brutto anatroccolo”. Rappresenta la comunicazione fra gli elementi, fra i diversi mondi e come animale sacro alla dea è considerato un simbolo del sole e un messaggero degli dèi, benefico e sacro possessore di poteri magici legati alla musica e al canto, uniti ai poteri terapeutici del sole e dell’acqua: il cigno rappresenta anche la luce interiore dello spirito umano, la scintilla divina nell’uomo. Il cigno vive nell’acqua ed è un volatile – dunque è associato anche all’aria – può camminare sulla terra – e quindi è associato anche a questo elemento –, ma il legame più forte è quella con il fuoco, per via del suo lungo collo che lo rende simile a un serpente o un drago.

Battaglia tra un drago e un leone, di Leonardo da Vinci (Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, Uffizi, Firenze).

Battaglia tra un drago e un leone, di Leonardo da Vinci (Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, Uffizi, Firenze).

Il mondo sotterraneo pullula di esseri che spargono fuoco: serpenti e draghi il cui alito di fiamma distrugge i corpi e le anime. Le storie mitologiche su esseri di fuoco hanno origini antichissime. Il racconto della lotta di Eracle contro l’Idra di Lerna o il serpente Ladon, di Bellerofonte contro la Chimera, di Giasone contro il drago della Colchide e, ovviamente, quello del conflitto cosmico tra Zeus e Tifeo riportano a un unico tema mitico: quello dello scontro tra un dio o un eroe e un essere mostruoso e letale, dalla forza prodigiosa.

In varie tradizioni, in primis quella nordica, i draghi rappresentano simbolicamente le linee di potere della terra, la “wouivre”: quelle correnti di energia tellurica che gli antichi ben conoscevano. In Oriente i draghi rappresentano anche l’energia personale e la Kundalini, l’energia vitale che risiede arrotolata come un serpente alla base della spina dorsale. In Cina, i draghi sono ritenuti animali capaci di portare grande distruzione ma anche grande fortuna, indicando la duplice natura distruttrice-creatrice del fuoco, e sono spesso associati a dee femminili e alla luna. La mitologia occidentale è piena di draghi; ma, una volta caduto sulla terra, il serpente-drago del mito perde la connotazione di divinità delle origini. Fino a trasformarsi, nell’Occidente medievale, in pura incarnazione del Male – in quanto simboli archetipici dell’energia femminile e tellurica – e prova di santità per il cavaliere cristiano, che ha una missione: sconfiggere e sottomettere queste creature malvagie.

Simili ai draghi sono i serpenti, simbolo ricorrente d’iniziazione ai Misteri della Dea Madre. Alcune leggende narrano che antichi rituali d’incoronazione di re sacri presso le civiltà dell’antica Europa prevedessero che sul corpo o sulle braccia del sovrano venissero tatuati dei serpenti come simboli del suo servizio alla Terra e alla Dea. Il serpente è presente anche nelle culture dell’America Centrale come simbolo del fuoco e dell’iniziazione, poiché in quelle terre abbondano serpenti velenosissimi il cui morso può condurre alla morte o all’estasi, e riflette dunque ancora una volta la doppia natura del fuoco, la sua temibile potenza distruttrice così come la sua capacità di purificare e permettere la rinascita e la sopravvivenza. Come i draghi, anche i serpenti, simbolo dell’energia femminile, vennero demonizzati dal cristianesimo, diventando il simbolo stesso del male.

E al fuoco è infine collegata la fenice, l’uccello fantastico noto per il fatto di rinascere dalle proprie ceneri dopo la morte e di cui per primi parlarono gli antichi Egizi (e per i quali era noto con il nome di “bennu”). Secondo le leggende, quest’animale fantastico, dopo aver vissuto per 500 anni (secondo altri 540, 900, 1000, 1468 o addirittura 12994), sentiva sopraggiungere la sua morte, così si ritirava in un luogo appartato e costruiva un nido sulla cima di una quercia o di una palma. Qui accatastava ramoscelli di mirto, incenso, sandalo, legno di cedro, cannella, spigonardo, mirra e le più pregiate piante balsamiche, con le quali intrecciava un nido a forma di uovo – grande quanto era in grado di trasportarlo. Infine, vi si adagiava, lasciava che i raggi del sole la incendiassero, e si lasciava consumare dalle sue stesse fiamme mentre cantava una canzone di rara bellezza. Per via della cannella e della mirra che bruciavano, la morte di una fenice era spesso accompagnata da un gradevole profumo. Dal cumulo di cenere, emergeva poi una piccola larva (oppure un uovo), che i raggi solari facevano crescere rapidamente, fino a trasformarla nella nuova fenice nell’arco di tre giorni (Plinio semplificava questa rinascita, sostenendo che avvenisse “entro la fine del giorno”). Dopodiché, la nuova creatura, giovane e potente, volava a Eliopoli e si posava sopra l’albero sacro, «cantando così divinamente da incantare lo stesso Ra (il dio del Sole di Eliopoli, ndt)» – peraltro si narrava pure che dalla gola della fenice fosse giunto il soffio della vita che animò il dio Shu (il dio primordiale della mitologia egizia che simboleggia l’aria).

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