Fabbro

Fabbro

Conoscitore del segreto dei metalli e del fuoco, nel quale è contenuto il principio della loro trasformazione, il fabbro è artigiano dotato di poteri divini: può elargire vita o morte per mezzo degli strumenti che forgia. Dal suo lavoro sono infatti prodotte le armi, così come i regali gioielli o le coppe e i calderoni nei quali sarà contenuto il liquido sacro.

Nella narrazione sull’origine del mondo si dice che gli dèi agli inizi del tempo lavorarono come fabbri e crearono (lett. «forgiarono»: smiðuðu) metalli, pietre e legno, producendo in tale abbondanza il metallo detto oro che quell’età fu detta «dell’oro». Ciò intende che la loro opera fu creativa e feconda. Ma gli dèi, si aggiunge altrove, furono anche «fabbri di canti»: ciò ne sottolinea la natura di possessori del segreto della vita. Per la stessa ragione Bragi, dio della poesia, è definito da Snorri «primo fabbro della poesia». Il fabbro diviene così nel mondo nordico, come del resto in molte tradizioni, un demiurgo che possiede i princìpi divini del bene e del male e per questa ragione è considerato con rispetto e timore: la sua fucina è immagine della matrice donde ogni forma origina.

Nella mitologia scandinava è esemplare la vicenda di Völundr. Di lui è narrato che era figlio del re dei Finni e aveva due fratelli. Con loro si era costruito una casa in Úfdalir. Essi sciavano e andavano a caccia di animali selvatici. Un giorno, la mattina presto, trovarono sulla riva del mare tre fanciulle che sedevano e filavano del lino. Accanto avevano i loro abiti da cigno, poiché erano valchirie. Erano Hlaðguðr detta Svanhvit, Hervör detta Alvitr e Ölrùn. Esse provenivano dal Sud. I tre fratelli le condussero alla loro dimora e le presero in spose. Völundr ebbe Alvitr. Queste fanciulle rimasero con loro sette inverni; nell’ottavo però sentirono nostalgia e nel nono volarono via a suscitare battaglie. I due fratelli di Völundr partirono dunque alla ricerca delle loro spose, uno verso est, verso sud l’altro: Völundr invece rimase in Úlfdalir e là prese a lavorare come fabbro. Egli era dotato di grandissima abilità. Così restava in attesa della sposa.

nor018C’era un re che si chiamava Niðuðr; era re di Svezia e aveva due figli e una figlia di nome Böðvildr. Niðuðr venne a sapere di Völundr che viveva da solo in Úlfdalir. Mandò dunque i suoi guerrieri da lui; essi si misero in cammino nottetempo: le armi scintillavano al chiarore lunare. Quando giunsero da Völundr, il fabbro non era in casa. Essi allora entrarono e videro appesi in una filza gli anelli, in numero di settecento, che egli possedeva. Li sfilarono, li presero in mano e li rimisero a posto tutti, tranne uno che tennero per sé. In quel mentre Völundr ritornava dalla caccia, sedette su una pelle d’orso davanti al fuoco e arrostì carne di orsa. Poi si mise a contare gli anelli: s’avvide allora che ne mancava uno. Völundr pensò che lo avesse la sua sposa e che ella fosse perciò tornata da lui. Così pensando rimase seduto e si addormentò, ma il suo risveglio fu privo di gioia: i guerrieri di Niðuðr lo avevano incatenato e Niðuðr davanti a lui lo accusava di avergli sottratto il suo oro. Völundr però rispose che quell’oro gli apparteneva legittimamente. Il fabbro venne condotto alla corte di Niðuðr; il re si prese la spada che era stata sua e donò a sua figlia Böðvildr l’anello che era stato rubato. Una donna tuttavia avvertì che Völundr era un essere assai pericoloso. La regina suggerì allora di tagliargli i tendini e di esiliarlo, poiché l’espressione del volto non prometteva niente di buono.

Völundr venne dunque mutilato, gli vennero recisi i tendini del ginocchio e fu condotto su un isolotto. Là egli preparava gioielli di ogni genere per il re. Nessuno osava avvicinarsi a lui, se non il re solo.

Völundr lavorava e meditava vendetta: la sua spada splendeva ora al fianco di Niðuðr; i suoi anelli, preparati per la sposa, erano stati dati a Böðvildr. Con questi pensieri lavorava giorno e notte alla fucina.

Un giorno vennero da lui i due figli del re Niðuðr: essi volevano vedere i tesori che si trovavano là. Vollero le chiavi, lo scrigno fu aperto e i giovinetti poterono vedere l’oro. Poi Völundr li invitò a tornare ancora: disse che avrebbe loro donato il tesoro; essi però avrebbero dovuto andare da soli e non parlare a nessuno del loro viaggio. Di mattino presto dunque un fratello chiamò l’altro e disse che dovevano andare. Di nuovo lo scrigno fu aperto e quando i giovinetti vi guardarono dentro fu palese la malizia: Völundr tagliò loro la testa e gettò i piedi nella fornace; con i crani invece fece delle coppe preziose, le rifinì d’argento e le consegnò a Niðuðr. Poi ancora trasse pietre e collane preziose dai loro occhi e dai denti e mandò questi monili alla regina e a Böðvildr.

Una volta Böðvildr si recò da Völundr: era accaduto che le si era rotto l’anello ed ella non osava dirlo se non a lui. Völundr la rassicurò dicendo che l’avrebbe riparato in modo tale che a sua madre e a suo padre sarebbe parso migliore di prima. Poi le diede da bere e con la birra vinse la sua resistenza: ella fu presa dal sonno nella sua dimora ed egli ebbe modo di abusare di lei. Völundr disse a se stesso: «Ora mi sono vendicato dei miei dolori, di tutti tranne uno, perfidamente».

Si rammaricò di non potersi più reggere sulle gambe, tuttavia si librò in volo; Böðvildr piangente lasciò l’isola: soffriva per la partenza dell’amante e per l’ira del padre.

La saggia sposa di Niðuðr, che stava fuori della corte, entrò nella sala dove il re sedeva a riposarsi: gli domandò se dormisse. No, non dormiva: era anzi angosciato per la perdita dei figli; voleva al più presto avere un colloquio con Völundr. E fu in quel colloquio che Völundr svelò a Niðuðr in quale orrendo modo si era vendicato dell’offesa subita: rivelò ogni cosa, di come aveva ucciso i due figli del re e di come aveva tratto coppe e monili dai loro crani, dai loro occhi e dai loro denti; poi rivelò anche d’aver posseduto Böðvildr e che ella ora attendeva un figlio da lui: questo però disse solo dopo che Niðuðr ebbe pronunciato ogni sacro giuramento che non si sarebbe vendicato sulla fanciulla. Niðuðr augurò a Völundr ogni male; capiva tuttavia, dolorosamente, che non avrebbe potuto vendicarsi poiché l’altro si librava irraggiungibile nell’aria, ridendo per la vendetta compiuta. Niðuðr rimase seduto tristemente; allora mandò un servitore a chiamare Böðvildr per parlarle. Poi la interrogò volendo da lei conferma di quanto Völundr aveva detto e la fanciulla non poté far altro che ripetere la loro sciagura; contro di lui ella davvero non aveva potuto far nulla!

In questa storia vanno sottolineati la mutilazione e l’esilio di Völundr. La prima, corrispettiva delle mutilazioni subite da analoghe figure di fabbri in altre tradizioni (Efesto in quella greca, Giacobbe in quella ebraica, Nommo in quella Dogon), ha il significato di un marchio che testimonia un contatto folgorante con la divinità da cui deriva la conoscenza dei segreti celesti. Il secondo rappresenta una consuetudine, nota a diversi popoli, che voleva il fabbro relegato ai margini della società, perché il suo potere lo rende misterioso e temibile.

Nel mondo nordico anche i nani, che abitano le dimore sotterranee dove si trovano i metalli, sono fabbri famosi, artefici di oggetti magici per gli dèi. Essi hanno forgiato la chioma d’oro di Sif, moglie del dio Thor, l’anello Draupnir e la lancia Gungnir per Odino, il martello di Thor, la nave Skiðblaðnir e il verro Gullinbursti dalle setole d’oro per Freyr e anche il monile Brisingamen per Freyja.

Per la loro relazione con i metalli che si trovano, come talora il fuoco, nelle viscere della terra, essi sono anche guardiani di tesori nascosti, cioè custodi di un bene che può essere fonte di saggezza e fecondità o di egoismo e distruzione. Il possesso di tali segreti li rende esseri iniziatici per eccellenza; per questo un fabbro, il nano Reginn (fratello del drago Fáfnir, custode di un tesoro), sarà precettore ideale per l’eroe Sigurðr. L’atto di Sigurðr, che avuta dal suo precettore la spada Gramr fendette in due l’incudine di Reginn, sottolinea che l’apprendistato è compiuto ed è esaurita la funzione del fabbro.

La spada donata dal fabbro magico è pertanto oggetto altamente potente e difficile da maneggiare perché in essa è contenuto il segreto della vita.

In una saga sono ricordati due fabbri misteriosi, Alius e Olius, che forgiarono due spade per un re: la prima tuttavia si spezzò durante una prova, mentre della seconda è detto che fu indicata da colui che l’aveva forgiata, adirato per il trattamento ricevuto dal re, come strumento che avrebbe recato morte a molti componenti della sua stirpe. Questo in seguito si verificò puntualmente, nonostante la spada fosse stata gettata in un lago per evitare l’avverarsi della profezia.

La funzione bivalente del fabbro è parte della sua stessa natura. Così è nota l’espressione «fabbro di mali» (bölvasmiðr) riferita al maligno Loki.

La funzione sociale del fabbro è testimoniata dalla citazione di Smiðr «fabbro», «artigiano» tra i figli di Karl, colui dal quale sono derivate sulla terra le stirpi dei contadini e degli artigiani.

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