Caccia Mitsubishi A6M e Nakajima Ki. 84

Caccia Mitsubishi A6M e Nakajima Ki. 84

Il Giappone fece il suo ingresso ufficiale in guerra, attaccando direttamente gli Stati Uniti, il 7 dicembre 1941, con il noto e spettacolare attacco a Pearl Harbour. Laddove una certa propaganda moderna porti a svilire, in un certo senso, la forza armata giapponese, sostenendo che i suoi meriti siano dovuti solo ed esclusivamente al fanatismo (in senso negativo) dei suoi soldati, occorre invece chiarire che se da una parte è vero che le fortune dell’esercito giapponese sono dovute all’estremo rigore morale, etico e disciplinare dei suoi soldati (il cui sacrificio è stato e rimane qualcosa di eroico svolto come atto d’estremo amore verso la propria comunità), dall’altra occorre sottolineare come il Giappone avesse preparato il suo ingresso in guerra con una preparazione bellica eccezionale anche e soprattutto nei confronti della forza aerea: possiamo scrivere che i preparativi furono portati avanti con un rigore ed una precisione tipicamente giapponesi.

Uno Zero-Sen diretto verso Pearl Harbour

Uno Zero-Sen diretto verso Pearl Harbour

Proprio l’attacco a Pearl Harbour dimostrò tutto il potenziale aereo nipponico: mentre prima del 1941 il mondo intero (esclusi forse gli alleati dell’Asse) non era a conoscenza dell’effettivo grado di pericolosità della forza aerea del Sol Levante, con l’attacco del 7 dicembre tutti furono a conoscenza dell’estrema capacità offensiva dei velivoli e degli equipaggi giapponesi. Questo evento quindi, tutt’altro che casuale, era il frutto di interi anni di strenuo lavoro condotto dai tecnici giapponesi, che sin da prima della guerra avevano studiato la messa a punto di mezzi nuovi ed eccezionali (almeno per la loro regione geografica) e soprattutto si erano dedicati all’addestramento di una folta schiera di piloti specializzati nella tecnica di combattimento tra caccia. Lo scrivente vuole sottolineare che se i velivoli giapponesi, pur nella loro altissima qualità tecnica, erano dotati di alcuni punti critici, i loro piloti rappresentavano invece una vera aristocrazia dell’aria e, in quegli anni, non erano certamente inferiori a nessuno.

La caratteristica principale degli aerei giapponesi fu (e rimase per tutta la durata del conflitto, nonostante le numerose modifiche tecniche atte a migliorarne le prestazioni) l’eccezionale maneggevolezza, tanto elevata da renderli quasi un tutt’uno con il pilota; quest’estrema maneggevolezza era però dovuta ad uno scafo molto leggero e quindi era causa anche del peggiore difetto della flotta giapponese ovvero della sua estrema vulnerabilità al fuoco nemico, difetto costante (e mortale) che accompagnerà praticamente tutta la produzione giapponese durante gli anni del conflitto bellico. Il maggior pregio degli aerei giapponesi costituiva anche il suo tallone d’Achille: se è vero infatti che questi consentivano ai piloti di compiere praticamente ogni tipo di manovra che desiderassero, dall’altra però era causa del suo peggior punto di debolezza e così anche aerei obsoleti e tecnicamente inferiori potevano abbattere quelli dell’aeronautica nipponica: qualora fossero riusciti ad agganciarli, sarebbero bastate poche scariche di mitragliatrice per abbatterli.

Mitsubishi A6M3

Mitsubishi A6M3

Uno tra i più famosi aerei da caccia giapponese della seconda guerra mondiale (ed una vera spina del fianco per le forze degli Alleati) fu il Mitsubishi A6M Zero-Sen, un caccia di uso terrestre e navale (venne infatti imbarcato su tutte le portaerei della Marina Imperiale) caratterizzato, oltre che dalla già citata maneggevolezza, da una velocità assolutamente fuori dal comune. La prima versione della serie, il caccia A6M1, venne per la prima volta testato nel 1940 in Cina. La versione successiva, l’A6M2, venne invece caratterizzata da un motore notevolmente potenziato e fece la sua clamorosa comparsa proprio durante l’attacco a Pearl Harbour. Questa vera saetta del cielo raggiungeva una velocità di 540 km/h ed era dotato di armamenti potenti: due cannoncini da 20 mm e due mitragliatrici da 7,7 mm. Di fronte a questo aereo, agilissimo e pilotato da uomini esperti, i Curtiss P40 statunitensi non poterono che soccombere miseramente, cedendo il dominio del Pacifico alla forze aeree giapponesi. Il successivo modello, il A6M3, venne caratterizzato da un’eguale superiorità basata sulla velocità nei cieli, ottenuta tramite un aumento della potenza utile anche a quote più elevate raggiunto per mezzo del montaggio di un turbocompressore nel sistema di propulsione.

Grazie a questi velocissimi mezzi, come già scritto, la supremazia sul Pacifico sembrava essere ormai completamente a favore delle forze giapponesi. Ma, come è normale che sia, una potenza bellica come quella statunitense non poteva certamente subire continue sconfitte senza cercare di modificare i propri mezzi e di reagire alla situazione contingente: fu così, grazie all’impiego di nuovi aviomezzi e di nuove tecniche di volo messe in campo dagli americani, che il Giappone dovette affrontare, nel 1942, la nota sconfitta presso le isole Midway. Questa disfatta costrinse i tecnici giapponesi a rivedere i concetti su cui era basata la costruzione dei loro caccia: in particolare essi si resero conto del fatto che per potere affrontare ad armi pari i nuovi avversari i loro mezzi dovevano venire dotati di quegli indispensabili dispositivi di protezione (a salvaguardia del pilota e delle parti più esposte dello scafo) dei quali questi erano del tutto mancanti.

Hayate del 73mo squadrone

Hayate del 73mo squadrone

La Mitsubishi, dopo avere prodotto un prototipo di velivolo detto A6M4 (mezzo la cui esistenza è molto controversa e del quale non è noto praticamente nulla, eccetto al fatto che fosse dotato di un turbocompressore capace di lavorare ad altissima quota), produsse un ulteriore modello di caccia, l’A6M5. Questo era finalmente dotato di un impianto automatizzato d’estinzione incendi, di uno scafo leggermente più spesso in alcune zone considerate “critiche” e di armamenti più pesanti: in particolare oltre ai già presenti cannoncini gemelli da 20 mm vennero implementate due mitragliatrici da 13 mm sulle ali e due mitragliatrici da 13 mm sulla fusoliera.

Questo modello può essere considerato il velivolo “definitivo” con il quale il Giappone affrontò il secondo conflitto mondiale. Da un punto di vista tecnico, esso era dotato di un propulsore radiale Nakajima-Sakae capace di sviluppare una potenza di 925 cavalli a 4000 metri di quota dal livello del mare. Era lungo circa 9 metri e caratterizzato da un’apertura alare pari a circa 12 metri. A vuoto pesava 1680 kg, mentre poteva sopportare un carico massimo di 2400 kg. La sua autonomia rappresenta un dato assolutamente eccezionale all’interno del panorama degli aviomezzi del tempo: senza serbatoi supplementari esso infatti poteva volare per circa 1800 km, mentre con l’utilizzo di serbatoi sganciabili arrivava a coprire una distanza pari a 3100 km.

Gli U.S.A. si erano però sin da subito dimostrati più che efficaci nel prendere le contromisure contro il nemico giapponese e così, nonostante gli sforzi eseguiti dai suoi ingegneri, il Sol Levante non riuscì a dimostrarsi tanto adattabile come invece si dimostrò il nemico statunitense. E’ lecito scrivere che i giapponesi persero il dominio sul mare a causa del loro orgoglio che non gli permise di deviare troppo dalle loro impostazioni di base: il calcificarsi su sé stessi li rese meno adattabili ed in natura, secondo una nota teoria, il meno adattabile è destinato a soccombere. Quando riuscirono a produrre un mezzo capace di rispondere alle nuove tecniche americane, il sole stava ormai tramontando anche per il paese che per primo lo vede sorgere.

Attacco Kamikaze alla USS-Missouri. Nella-foto si nota il caccia pochi secondi prima dello schianto

Attacco Kamikaze alla USS-Missouri. Nella-foto si nota il caccia pochi secondi prima dello schianto

Il Giappone quindi iniziò troppo tardi lo studio di nuovi caccia. Tra questi i più temibili fu il Nakajima Ki. 84, soprannominato dai giapponesi “Hayate” (ovvero burrasca, come quelle tempeste divine capaci di proteggere le isole giapponesi dagli invasori che tentarono la sortita nel corso dei tempi) e denominato comodamente dagli americani col nome in codice “Frank”. Questo fu uno tra i più pericolosi caccia che gli statunitensi dovettero affrontare proprio perché era dotato di tutte le qualità degli A6M, ma risultava esente dai loro difetti ed in particolare dalla loro rinomata fragilità. A questo proposito è interessante far notare come la sua progettazione iniziò proprio nel 1942 ovvero quando i segnali della ripresa americana in campo aereonautico erano ormai evidenti.

La costruzione degli Hayate però non iniziò prima dell’agosto del 1943 ed il primo velivolo prese il volo agli inizi del 1944 ovvero quando ormai la guerra si era incamminata lungo dei binari ben precisi ed in una direzione di non ritorno. Sin dal suo ingresso in campo però il caccia si distinse come uno tra i più pericolosi mai visti, capace di impegnare competitivamente l’intera flotta statunitense. Caratterizzato da un immenso volume di fuoco, rapidissimo in cabrata, dotato di serbatoi e di abitacolo corazzati, tanto veloce da non potere essere agganciato: era un cliente davvero pessimo da gestire anche per i poderosi Thunderbolt statunitensi, che in alcune occasioni ne vennero tanto atterriti da fuggire vigliaccamente ed in maniera disperata.

Le sue caratteristiche tecniche erano davvero strabilianti: lungo 9,9 m e dotato di un’apertura alare pari a 11,2 m, era dotato di un propulsore radiale Nakajima Ha-45 capace di raggiungere, a pieno carico (ovvero con un peso pari a 4100 kg) ed a un’altezza pari a 6000 m, una velocità pari a 680 km/h. Gli Hayate erano armati con due mitragliatrici da 12,7 mm montate sulla fusoliera e due cannoncini da 20 mm installati sulle ali. Era inoltre dotato di un ulteriore carico offensivo costituito da 500 kg di bombe.

Purtroppo, come già scritto, la costruzione del miglior caccia della seconda guerra mondiale iniziò tardi, troppo tardi. Ormai il Giappone era una nazione giunta allo stremo delle proprie forze che non poteva più permettersi lo sforzo di una produzione massiva o di intraprendere operazioni meramente offensive. Per questi motivi vennero prodotti soli 3600 esemplari di Hayate. Questo mezzo, pur manifestandosi come superbo nella lotta nei cieli delle Filippine, dovette tornare in patria ed essere impiegato nella difesa delle città giapponesi, sottoposte al martellamento delle Superfortezze volanti (i Boeing B 29) statunitensi. E’ curioso notare come prima ancora dell’utilizzo di quella spregevole arma che è la bomba atomica, gli U.S.A., coloro che giudicarono un altro paese per crimini contro i civili, non si facessero problemi nel sottoporre a bombardamenti massivi le città e quindi i civili giapponesi. Vae victis!

E’ un imperativo morale per lo scrivente sottolineare come i soldati dell’aria giapponesi non si arresero davanti all’inarrestabilità del loro nemico, nemmeno quando questi li attaccava in casa, radendo al suolo le proprie città. Laddove altri popoli, appartenente ad altri stati, accolsero come salvatori i loro nemici, tradendo la parola data in cambio di qualche sigaretta e di qualche stecca di cioccolata, i soldati giapponesi in un estremo tentativo di salvare la propria patria ed il loro popolo tentarono la carta degli attacchi suicidi, diventando (con i loro velivoli carichi di esplosivo) l’incarnazione del soffio del “vento divino”. Lo stesso kamikaze, il leggendario tifone che salvò l’impero giapponese dalla flotta mongola pronta ad invaderlo, era adesso incarnato da piloti in simbiosi con macchine d’acciaio, i velocissimi A6M Zero-Sen ed gli Hayate. Questi eroici piloti furono i Fulmini, pronti a difendere il paese del Sol Levante.

Pasquale Piraino

Share

Comments are closed.